Accordo con suspense finale. Questo il clima che ha accompagnato gli ultimi momenti dell’accordo tra la Commissione europea e la Cina. Intorno al tavolo per la lunga trattativa, dopo il lavoro degli sherpa, Li Kequiang per la Repubblica popolare e Jean-Claude Juncker e Donald Tusk, per conto delle istituzioni europee. Working ancora in progress, secondo le cronache, anche se i principali nodi sembrano essere stati risolti. E risolti grazie a concessioni da parte cinese, costretti a rivedere alcune posizioni iniziali. Va da sé che, alla fine, il documento finale non potrà che essere scritto nel linguaggio diplomatico, in cui le diverse sfumature sono sostanza.
Ma perché l’accordo? Una spinta potente è venuta dalla necessità di avviare una riforma del Wto: l’organizzazione del commercio internazionale. L’organismo resta a presidio del sistema multilaterale degli scambi. Principio sempre più contestato da Donald Trump, che vorrebbe, invece, una diffusione generalizzata degli scambi su base bilaterale. Rapporto in cui gli Usa sarebbero in grado di sprigionare il massimo della loro potenza economica, politica e anche militare. Per averne contezza, basta guardare alle ultime minacce americane in tema di dazi sulle esportazioni europee. Quel che sconcerta in questa ultima querelle non è solo la minaccia di imporre dazi contro gli europei per un valore pari a 11 miliardi di dollari. Con un prelievo aggiuntivo destinato a spalmarsi su una serie molto ampia di importazioni: dagli aerei ai prodotti alimentari, compresi il formaggio roquefort e l’olio d’oliva. Sono invece le motivazioni, che ne sorreggono la scelta, ad apparire ancora più sconvolgenti. Si tratta di una sorta di punizione giustificata dal sostegno europeo offerto ad Airbus, destinato inevitabilmente a fare concorrenza alla Boeing. La politica ridotta ad una dimensione puramente mercantile.
L’Europa, quindi, anche non volendo, è costretta a reagire per non essere stretta in una morsa tra gli Stati Uniti da un lato e la Russia di Putin dall’altro. La sponda cinese può quindi rappresentare una possibilità, a condizione di non cadere dalla padella nella brace. Vale a dire accettare supinamente un abbraccio che può divenire soffocante, non dimenticando che l’Impero di mezzo è anche un partner commerciale e finanziario. Ma è soprattutto un competitore ed un avversario politico. Ragionamenti, questi ultimi, che hanno fatto da sfondo al negoziato che (almeno sembra) si sta concludendo. Ma che non risolvono il problema. Occorre un’Europa diversa se si vogliono affrontare le sfide del futuro. Più unita e coesa e quindi più democratica. Con una maggiore condivisione dei rischi e una più elevata propensione allo sviluppo. Solo questa prospettiva potrà evitare l’incubo del vaso di coccio tra i tanti vasi di ferro.
Il negoziato ha risentito, almeno in parte, di questo clima. Scontando altresì il dato della profonda diversità, quasi antropologica, tra i due sistemi economici e sociali: la società più o meno aperta da un lato, il dirigismo comunista dall’altro. Il che spiega come una delle parole chiavi sia stata: “reciprocità”. Cosa questo possa significare in concreto lo si vedrà nelle scelte future. Non si dimentichi che in Cina il tasso di elusione degli accordi sottoscritti è molto più facile, che non in Europa. Colà la centralizzazione del comando fa sì che la ragion di Stato possa prevalere più facilmente rispetto ai vincoli esistenti in una democrazia parlamentare. Ne deriva che non basterà siglare l’accordo. Occorrerà una continua vigilanza per evitare che fatta la legge si trovi facilmente l’inganno.
Reciprocità, comunque, significa che le imprese cinesi ed europee dovranno essere trattate allo stesso modo, sia quando operano in Cina che in Europa. Sennonché la loro dipendenza economica e finanziaria è molto diversa. Da una parte regole di mercato, salvo un limitato numero di aziende di Stato, che non possono tuttavia ricevere aiuti dal Pubblico; dall’altra strutture produttive che dipendono quasi interamente dallo Stato. Il tema dei sussidi è quindi stato tra i più spinosi. E la ragione è evidente: le aziende sussidiate dallo Stato hanno un vantaggio competitivo immediato nei confronti dei propri concorrenti, per cui vanno in qualche modo limitate. Già nello scorso Consiglio europeo erano state indicate alcune linee guida. Era stato deciso, ad esempio, che le aziende finanziate dallo Stato cinese non potessero partecipare alle gare indette da istituzioni pubbliche.
Al tempo stesso era previsto uno screening sugli investimenti cinesi in Europa, per coglierne tutte le implicazioni di carattere strategico ed eventualmente bloccarli con il ricorso ad un’istituenda “golden power”. Su questa decisione, come si ricorderà, il governo italiano si era, inspiegabilmente, astenuto. Sullo sfondo, infine, la parte costruens: vale a dire la necessità di favorire la nascita di “campioni europei”, favorendo il merger tra le compagnie dei diversi Paesi membri. Una piccola rivoluzione, rispetto alle decisioni dell’Antitrust europeo, sempre pronto a bloccare ogni possibile iniziativa. Da quel che si comprende dal comunicato, vi sarebbe la disponibilità, da parte delle Autorità cinesi, ad indicare quei settori in cui le imprese europee potranno contare su un mercato più aperto. Vi dovrebbe essere, pertanto, una netta segmentazione: settori riservati alle aziende di stato e settori completamente aperti alla concorrenza internazionale.
In questo secondo campo, tuttavia, dovranno valere, come sottolinea il comunicato, gli “standard internazionali nel campo della protezione e della proprietà intellettuale”. Su questa tesi hanno insistito particolarmente Francia e Germania preoccupate del fatto che, molto spesso, una delle condizioni per l’investimento in Cina è la totale cessione del know how industriale. Infine due note a margine. La riaffermazione, che ha fatto storcere il naso ai rappresentanti cinesi: “i diritti umani sono universali, indivisibili, interdipendenti e interconnessi”.
L’interesse mostrato dalla Cina per le grandi linee di comunicazioni intereuropee – Ten-t– di cui la Tav, Lione -Torino è parte integrante. Il che fa apparire i 5 Stelle, sostenitori delle intese sulla “nuova via della seta”, ma contrari alla realizzazione di quell’opera, come apprendisti stregoni. Hanno cercato di cavalcare entrambi i dossier, ma in modo assolutamente schizofrenico. Si può infatti sostenere che le merci cinesi possono solo arrivare ai porti di Genova e di Trieste e lì rimanere? I cinesi sono soprattutto interessati ai grandi mercati europei. Di cui quelle grandi infrastrutture rappresentano le arterie imprescindibili. Lo si è compreso a Pechino, ma non a Torino, il cui sindaco è paralizzato dal vociare dei “No Tav”.