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Matteo Salvini e la maledizione del numero 3

Matteo Salvini sta toccando con mano la complessità del sistema di potere italiano (o meglio di quel che ne resta), che non consente a nessuno di esserne punto di riferimento univoco se non per brevi (e inebrianti) periodi.

Per capire meglio di cosa stiamo parlando si badi alla “maledizione del numero 3”, unica vera costante politica della cosiddetta Seconda Repubblica.

Un po’ di storia allora (per chiarirci meglio), usando come punto di riferimento proprio quelle consultazioni europee che avremo tra un mese esatto.

Anno 1994, voto europeo a pochi mesi da quello nazionale.

Berlusconi trionfa con un poderoso 30,6, sigillo formidabile del suo successo di marzo (nel frattempo il Cavaliere è diventato primo ministro) e, per non farsi mancare niente, della vittoria del Milan in Champions League (4-0 al Barcellona nella finale di Atene del 18 maggio, con due gol di Massaro e uno a testa di Savicevic e Desailly).

Con quel risultato Berlusconi si pone al centro della politica nazionale, pronto a guidare la danze: ma il buonumore gli passa subito e nel giro di pochi mesi Scalfaro, Bossi e Borrelli mandano a carte e quarantotto il suo governo, portano Dini a Palazzo Chigi e rimettono al suo posto il Cavaliere, che dovrà armarsi di molta pazienza e farsi cinque anni di opposizione.

Nelle due tornate successive (1999 e 2004) nessuno ottiene risultati straordinari e la situazione si mantiene (più o meno) sotto controllo.

Invece nel 2009 si torna ad un successo molto significativo di un solo soggetto politico dotato di leadership individuale.

Tocca di nuovo al Cavaliere con il Suo Partito della Libertà, capace di un 35,2 di consensi a un anno dalla vittoria alle politiche (schema simile a quello del ’94).

Da lì inizia la crisi di quel governo che verrà travolto due anni dopo per l’azione congiunta di Fini, del caso Ruby e dello spread (con vivace contributo della premiata coppia Merkel&Sarkozy), il tutto con la sapiente regia di Giorgio Napolitano.

Arriviamo così al 2014, l’anno del mitico 40,8 di Matteo Renzi a pochi mesi dal suo insediamento a Palazzo Chigi.

Trionfo clamoroso, addirittura superiore a quello di chiunque altro nella storia recente della Repubblica (di un soffio siamo persino al “4”).

Renzi gongola, gigioneggia, sbeffeggia avversari e compagni di partito.

Per un anno e mezzo è il dominus assoluto della scena politica nazionale, ma nel frattempo i tanti “allergici” al suo ruolo si organizzano.

E così tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 arriva la vicenda di Banca Etruria, arriva la scissione di D’Alema e Bersani, arriva lo sciagurato referendum costituzionale, che vede Renzi da solo contro tutti (ed in particolare contro una quota importante della sinistra).

Risultato finale Renzi via dal governo, dentro Gentiloni per concludere la legislatura.

Ma la regola maledetta del “3” vale anche per gli ultimi arrivati e, spesso, si manifesta con grande rapidità.

Si prenda il sorprendente 32,7 del M5S del marzo 2018 alle politiche.

Successo vistoso, ma, ad un tempo, pericolosissimo.

Infatti la legislatura inizia all’insegna dei guai per il movimento, con inchieste varie (Torino, Roma) e scandaletti più o meno sfiziosi (vicenda Sarti): in pochi mesi i consensi scendono di dieci punti, collocando il M5S sempre terzo in tutte le regioni che nel frattempo vanno alle urne.

Ed eccoci a Matteo Salvini, oggi nel pieno del suo personale confronto con quel maledetto “3” che tutti i sondaggi indicano come prima cifra del voto nazionale alla Lega.

È il Salvini trionfatore nelle regioni (Molise, Basilicata, Abruzzo, Friuli, Sardegna, Trentino), perché lui ne traina le campagne elettorali anche quando i candidati non sono della Lega.

È il Salvini che tiene il punto sui temi che gli stanno a cuore (immigrazione in testa) anche a costo di far infuriare sindaci, colleghi ministri o apparati dello Stato (si legga alla voce militari).

È il Salvini che per mesi cannoneggia i suoi alleati nel governo giallo-verde, riuscendo in un semestre a ribaltare le posizioni di consenso rispetto a quelle uscite dalle urne l’anno scorso.

Insomma è un Salvini “leader maximo”, fortissimo nel suo rapporto di “pancia” con buon parte dell’elettorato nazionale.

Quel Salvini che sta misurando sul caso Siri, nella convivenza con Di Maio e, persino, sul 25 aprile quant’è difficile convivere con quel birichino del numero “3”.

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