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Lo spread c’è e si sente. Non serve arrivare a 300 per sprecare miliardi

I valori non sono quelli da allarme rosso, dai 300 punti base in su per intendersi. Ma forse è proprio questo il problema: lo spread non sale sì ma nemmeno scende, si mantiene ben saldo intorno ai 250 punti base, 125 in più rispetto alle settimane precedenti l’insediamento del governo legastellato. Un gap non trascurabile. Silenziosamente, mentre il governo discute di Def, di Iva e di Pil, è in atto una vera e propria emorragia di spesa pubblica. Soldi che vanno a finanziare quegli interessi su ogni Btp o Bot piazzato nel corso delle aste mensili, senza i quali sarebbe impossibile collocare il nostro debito presso gli investitori stranieri. E dunque ottenere quei 400 miliardi di euro prestati dal mercato in cambio di titoli che ogni anno vanno a finanziare quella parte di spesa che le tasse con arrivano a coprire. Liquidità senza la quale lo Stato non funzionerebbe.

Sono ormai settimane che il rendimento dei Btp decennali viaggia intorno al 2,5-2,6%, contro lo 0,08% del Bund tedesco. Significa che per collocare un Btp a 10 anni il Tesoro italiano deve promettere al compratore un guadagno 31 volte superiore a quello che garantisce la Germania. Dunque, finché lo spread non scenderà in modo sensibile e strutturale, vorrà dire che l’Italia continuerà a pagare un prezzo altissimo sul proprio debito, sottraendo al bilancio risorse che potrebbero benissimo finanziare l’economia reale. Proprio la scorsa settimana la Germania è tornata ad emettere bond decennali a rendimenti sotto zero come non succedeva dal 2016. Da anni il costo del debito pubblico in Germania si è praticamente azzerato. Per via dei tassi negativi la Germania si trova addirittura a guadagnare indebitandosi visto che spesso rimborsa a scadenza una cifra inferiore di quanto prende in prestito. In Italia le cose vanno diversamente.

Secondo alcuni calcoli del Sole 24 Ore, entro la fine del prossimo anno la spesa italiana in interessi sul debito toccherà il 3,6% del Pil, superando il budget che ogni anno lo Stato destina all’istruzione (3,5% del Pil, l’8% della spesa pubblica). Insomma, una sessantina di miliardi in interessi nel giro di un anno, praticamente il costo di due manovre. Non può stupire dunque l’allarme di Bankitalia di due giorni fa (qui l’articolo con tutti i dettagli) secondo la quale lo spread alto può mangiarsi fino allo 0,7% del Pil, così come non può stupire un altro dato: numeri alla mano in dieci anni la Germania ha speso 242 miliardi di euro in meno dell’Italia per gli interessi sul debito, con un impatto concreto nella vita dei cittadini. Perché maggiore è la spesa per interessi, minori sono le risorse che lo Stato può utilizzare per finanziare altri servizi ai cittadini come scuole, ospedali, strade.

La soluzione al problema sarebbe ovviamente un ritorno a una crescita strutturale, accompagnata da un abbattimento del debito. Un Paese che fa Pil diventa affidabile agli occhi dei mercati che per sottoscrivere il nostro debito e prestarci denaro potrebbero chiedere un prezzo meno alto. In questo senso la previsione di Bankitalia contenuta nell’ultimo bollettino economico, suona come musica. Via Nazionale stima infatti, dopo una recessione tecnica a fine 2018, un lieve recupero dell’attività economica, certificato per altro da alcuni dati Istat, ma una debolezza di fondo che si percepisce nelle imprese che hanno tagliato i loro piani d’investimento, spaventate dall’incertezza sul clima complessivo degli affari e sul fronte politico. Secondo via Nazionale, il Pil italiano “dovrebbe essere aumentato dello 0,1 per cento nei primi tre mesi del 2019”. E anche sul mercato del lavoro c’è un recupero: “si arresta il calo dell’occupazione nel primo bimestre dell’anno. In particolare, sulla base dei dati preliminari della Rilevazione sulle forze di lavoro, nei primi due mesi del 2019 il tasso di partecipazione e quello di disoccupazione sarebbero rimasti stabili rispetto al bimestre precedente”. Non è finita. Nella media del trimestre invernale, scrivono i tecnici di via Nazionale, l’attività sarebbe cresciuta nell’industria in senso stretto, mentre si sarebbe confermata debole nei servizi e nelle costruzioni. Buone notizie, ora non resta che abbassare lo spread.

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