Un tweet di padre Antonio Spadaro sullo Sri Lanka, condiviso da moltissimi ma criticato da qualcuno, evidentemente cattolico, ci aiuta a capire quale rischio corriamo dopo la carneficina nello Sri Lanka. Ma prima di citare il tweet e le risposte inquadriamo il tema: come leggere e quindi rispondere alla barbarie terrorista?
Prima di recarsi in visita nello Sri Lanka, nel 2015, incontrandone i vescovi, Bergoglio seppe sottolineare: “Mentre il Paese cerca di riunirsi e guarire, la Chiesa si trova in una posizione unica per offrire un’immagine vivente di unità nella fede, poiché ha la benedizione di poter contare tra le sue file sia cingalesi sia tamil”. Proprio il direttore di Civiltà Cattolica ha ricordato in queste ore che già allora il Papa “aveva messo in guardia i vescovi da un senso di unità che nasce non dal dialogo, ma da un falso senso di unità nazionale basata su una singola identità religiosa”. Ripensare alla storia e alle discriminazioni di Ceylon-Sri Lanka aiuta a capire la centralità di questa osservazione. La prima ci dice che la minoranza tamil fu deportata nell’isola dai colonizzatori britannici per avere manodopera a basso costo nelle piantagioni di tea, la seconda ci ricorda che dalla fine della guerra civile nessun vero processo di “verità e riconciliazione” è stata tentato, anzi, la fine della guerra civile è segnata dal terribile massacro del 21 aprile 2009, operato dall’esercito a danno di Tigri tamil e probabilmente di civili tamil. E le Tigri inventarono l’attentatore suicida con cintura esplosiva. Serviva un processo di “riconciliazione nella verità”?
È interessante notare che proprio padre Spadaro ha osservato che l’appello alla riconciliazione tra le religioni assunse nei toni di Bergoglio “una portata civile: i seguaci delle varie tradizioni religiose hanno un ruolo essenziale da giocare nel delicato processo di riconciliazione e di ricostruzione del Paese”. Così Bergoglio indicava l’unica strada possibile: riconciliazione vuol dire ricostruire e riconoscere le verità storiche, per liberarsi e non rimanere schiavi dei torti. Una violenta esplosione di estremismo tra la maggioranza di etnia cingalese e religione buddhista negli anni recenti, rivolto soprattutto contro i musulmani come accaduto nel Myanmar, ha aperto le porte al nuovo estremismo islamista. Frange, certamente, ma questi giorni dicono quanto possono fare questi “pochi”. Per questo non fu retorica un passaggio molto citato dei discorsi del papa durante quel viaggio: “Per il bene della pace, non si deve permettere che le credenze religiose vengano abusate per la causa della violenza o della guerra. Dobbiamo essere chiari e non equivoci nell’invitare le nostre comunità a vivere pienamente i precetti di pace e di convivenza presenti in ciascuna religione e denunciare gli atti di violenza quando vengono commessi”.
Poco prima, il leader islamico aveva pronunciato parole veementi contro la strumentalizzazione fanatica e assassina della religione. Questa violenza che sembra unire è l’altra faccia di ciò che il Papa testimoniò di aver visto nel santuario di Madhu e che proprio Civiltà Cattolica ha ricordato in questi giorni: “C’erano buddisti, islamici, induisti, e tutti vanno lì a pregare; vanno e dicono che ricevono grazie! C’è nel popolo – e il popolo mai sbaglia -, c’è lì il senso del popolo, c’è qualcosa che li unisce”. Questa unità di popolo è stata minata dalle élite fanatiche, che vanno smascherate da ciascuno nel proprio campo, prima che in quello altrui. In questo senso l’immediata condanna da parte dell’imam dell’Università islamica di al-Azhar è uno sviluppo positivo, auspicabilmente solo il primo, ma significativamente il primo. L’Imam di al-Azhar, al quale il presidente egiziano ha recentemente impedito di uscire dal Paese senza previa autorizzazione, è infatti quel leader religioso che insieme a Bergoglio, davanti ad altri 500 leader religiosi, ha firmato quella che qualcuno ha derubricato a dichiarazione contro la violenza e invece è la dichiarazione sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune.
Ed eccoci così al tweet rivelatore. Ricordando che i cristiani dello Sri Lanka sono sia cingalesi sia tamil, il direttore de La Civiltà Cattolica ha scritto: “Era una chiesa-ponte, pronta a curare ferite. Aver colpito quella chiesa ha un significato chiaro: attaccare la riconciliazione nazionale…”. Sembrano parole innocue, fondate sulla realtà e di buon senso, oltre che di alta considerazione dei cristiani e della chiesa dello Sri Lanka. Ma non è stato così per alcuni. “Dispiace che la gloriosa Civiltà Cattolica non abbia il coraggio di denunciare la cristianofobia del fondamentalismo”, scrive uno. “Bravo – aggiunge un altro – Ancora non capisco perché non amano dire la Verità, eppure dovrebbero essere i primi a sacrificare se stessi in nome di Cristo Re!!”.
Cosa vuol dire? Cosa può spingere a questa lettura che non tiene conto del fatto a tutti noto che i cristiani dello Sri Lanka sono notoriamente sia tamil sia cingalesi e quindi simbolo di quell’unità che attaccando una comunità si intende far fallire? Forse il fatto che qualcuno dei cristiani dello Sri Lanka ha ruoli nell’esercito, cingalese e poco incline al compromesso con i tamil. Ma è andata così in tanti altri posti e ai tempi di Giovanni Paolo II, quando fu convocato il sinodo per il Libano, si ebbe il coraggio di scrivere nei Lineamenta: “La Chiesa ha visto con dolore i suoi figli essere uccisi, uccidere e uccidersi tra di loro”. Ma proprio grazie a questo coraggio critico e autocritico i cristiani sono tornati in quel Libano volano di quella fratellanza cittadina che ha fatto del Libano il “messaggio” di cui ha parlato Giovanni Paolo II. Un risultato opposto a quello perseguito da chi non ha mai riconosciuto che portavano l’effige di Maria i miliziani che perpetrarono la strage di Sabra e Chatila. Convintisi di poter vivere soltanto da soli, senza l’altro, alcuni cristiani avevano perso se stessi, ma la loro Chiesa li aiutò a ritrovarsi, costruendo un dopoguerra di riconciliazione e quindi di unità nazionale nella comune cittadinanza. E che l’identità profonda del cristianesimo di quelle terre sia nel vivere insieme lo testimonia dall’inizio della storia del cristianesimo la Lettera a Diogneto. Allora la lezione della Chiesa, della Chiesa conciliare in Libano e della Chiesa dello Sri Lanka, è quella di salvarli dalla loro possibile malattia.
La nostra malattia invece è quella di non volerli vedere come cristiani dello Sri Lanka, cingalesi e tamil come i loro connazionali che non riescono a vivere insieme per tanti motivi, certo non ultimo il mancato processo di riconciliazione nella ricostruzione delle verità. Se li vedessimo così, li vedremmo come cristiani dello Sri Lanka connazionali degli altri cingalesi e degli altri tamil anche quando arrivano qui, migranti. Ma in quel caso la loro religione sparisce, diventano semplicemente srilankesi, come tutti gli altri. Unirci a loro come cristiani non ci interessa più. Ci interessano come cristiani senza attributi, cingalesi o tamil, solo per trasformare l’aggressione contro di loro in un’aggressione contro di noi, da parte non dei terroristi, ma di tutto l’islam, tutto terrorista, tutto cristianofobo. In pratica abbiamo bisogno della loro sofferenza per fare – in fin dei conti – proprio quello che vogliono i terroristi, trasformare quegli attentati in una guerra di religione. Questo bisogno profondo, a volte anche inconsapevole, ci ha riguardato anche davanti a Notre Dame, che tanti hanno sperato essere stata distrutta da un attentato islamista.
Ecco la lezione del tweet del direttore della Civiltà Cattolica: senza processi di riconciliazione si finisce col consegnarsi ai cantori degli identitarismi, dei separatismi, dell’impossibilità di vivere insieme e quindi all’uso della religione contro e non per. Questo lo vediamo benissimo nell’azione dei terroristi. Perché colpire chiese e alberghi per occidentali? Per associare cristiani e occidentali, cioè colonialisti. Sposando la causa dei cristiani dello Sri Lanka non come tali, cioè cristiani cingalesi e tamil, ma come “i nostri” combattuti dagli “altri” non facciamo che prestarci, magari inconsapevolmente, al disegno di chi vuole conquistare un campo contro i valori della libertà, cioè del vivere insieme. Per questo preoccupano le reazioni al tweet del direttore della Civiltà Cattolica. Per renderci conto di quale sia il pericolo. Tanto che oggi, nei nuovi termini del confronto globale, si può dire che la nuova tutela del pluralismo parte dal Vaticano di Jorge Mario Bergoglio.