Tre giorni fa, poco prima di mezzanotte, lo Stato islamico libico (ciò che ne resta, vedremo) ha compiuto un blitz rapido in una città in mezzo al deserto libico, Al Fuqaha. Il raid dei baghdadisti è durato un’ora scarsa: tredici tecniche ben attrezzate (le tecniche sono i veicoli civili, di solito pick up, adattati a mezzi da guerra, con mitragliatrici da campo montati sui cassoni) hanno accompagnato qualche dozzina di miliziani, armatissimi (in Libia non è così complicato esserlo). Sono andati a colpo sicuro su due obiettivi: la casa del sindaco, giustiziato davanti ai famigliari prima di bruciare l’edificio, e quella del capo della sicurezza locale, a cui è toccata la stessa sorte. Hanno anche preso degli ostaggi: serviranno per capitalizzare sui riscatti.
Un’operazione da “Suburra”, la serie televisiva dove clan della malavita locale si contendono il territorio attorno a Roma, più che da gruppo terroristico. Ma lo Stato islamico libico è rimasto questo: una gang di malavitosi che ha comportamenti mafiosi. Vivono nascosti nella zone a sud di Al Fuqaha, che a sua volta si trova a sud di Sirte, che nel 2015 era la “fiorente capitale” (copyright: New York Times) del Califfato in Libia, la terza roccaforte nel mondo, dopo Raqqa e Mosul. Poi, nel 2016, Sirte è caduta sotto i colpi della campagna ibrida sostenuta dai bombardamenti aerei americani, che si occupavano (insieme a qualche altra unità speciale occidentale) anche di coordinare il lavoro a terra dei miliziani della città-stato di Misurata (dove la Folgore ancora protegge un ospedale da campo allestito dall’Italia proprio per aiutare i misuratini feriti durante la campagna anti-Is che andava sotto il nome di “Bonyan al Marsous”).
Sirte è caduta come Raqqa e Mosul: la loro fine ha segnato la fine del Califfato per come lo abbiamo tragicamente conosciuto. Il terrorismo fatto stato, che amministrava territori, ricavava introiti, formava combattenti. I miliziani jihadisti movimentati da tutto il mondo dal richiamo propagandistico ideologico di Abu Bakr al Baghdadi non sono scomparsi però. Quelli rimasti vivi, esistono – o forse meglio: resistono – ancora, nascosti in una forma di clandestinità su cui hanno già conoscenze acquisite (per esempio negli anni in cui gli americani avevano schiacciato al Qaeda in Iraq, da cui viene l’Is).
Le operazioni sono rapide, servono a marcare la presenza nel territorio per far vivere gli abitanti in una costante sensazione di provvisorietà. A volte allestiscono check point che restano in piedi meno di mezza giornata, chiedono documenti a chi passa, qualche mazzetta, in certi casi ritorsioni crudeli, prendono informazioni (l’intelligence baghdadista ha permesso per esempio di andare a colpo sicuro ad al Fuqaha).
Esistono, e aspettano il momento giusto per risorgere nel buio – anche perché uscire allo scoperto finora ha significato finire vittime dei raid aerei americani (in almeno un paio di occasioni post-Sirte sono stati devastanti, con i miliziani uccisi in più di cento alla volta: era novembre 2017, per esempio, quando gli Stati Uniti mandarono addirittura i B-2 dal Missouri a colpire in Libia).
Quelle dell’Is libico sono molto spesso di azioni intimidatorie – esecuzioni contro clan nemici per spaventare i cittadini – che non trovano spazio nelle cronache. L’attacco al sindaco ha un suo significato, soprattutto temporale. Nella rivendicazione che girava su Telegram, i baghdadisti dicevano di aver punito il primo cittadino di al Fuqaha perché aveva fatto un accordo con Khalifa Haftar, il signore della guerra dell’Est libico che già nel 2014 aveva impostato la sua campagna militare freelance per conquistare la Libia sotto l’ottica dell’azione anti-terrorismo (negli anni passati Haftar ha liberato Derna e Bengasi da gruppi islamisti e jihadisti, alcuni collegati all’Is, e anche per questo ha ottenuto il consenso di Emirati Arabi, Arabia Saudita, Egitto, Francia e Russia: tutti paesi che soffrono il terrorismo islamico, e dunque un risolutore in Libia era visto come un comfort da tutelare).
Il collegamento con Haftar offerto (non a caso) dalla rivendicazione è utile per una riflessione: non c’è niente di meglio per far risorgere lo Stato islamico e farlo tornare pubblico che una guerra civile. È successo in Siria nel 2013, per certi versi in Iraq nel 2014 (anche se non c’erano i combattimenti armati, ma le spaccature intra-irachene erano da clima di conflitto), è successo in Libia nel 2015, in Egitto e via dicendo. Da qui la cronaca: come scrive sul Foglio Daniele Raineri, giornalista esperto di dinamiche jihadiste, “ci sono molte ragioni per fermare la guerra civile vicino a Tripoli, è meglio contare anche questa: è un ricostituente fortissimo per lo Stato islamico”.
L’avanzata del generale Haftar verso la capitale libica dove è insediato il Gna, progetto onusiano per ricompattare la Libia, è un elemento di rischio estremo per la stabilità del paese: e nel caos l’Is attecchisce, sfruttando con predicazione e propaganda populista i sentimenti di malcontento e le tante armi a disposizione di proseliti fanatici. Come ricorda sempre Raineri, c’è un’altra ragione per bloccare la deriva che la crisi a Tripoli sta prendendo: ai combattenti in Libia sono stati collegati a due dei principali attentati baghdadisti sofferti dall’Europa, quello di Berlino e quello di Manchester.