Una delle ragioni che determinarono la vittoria elettorale di Donald Trump nel 2016, fu l’aspra critica che il magnate newyorchese portò avanti contro la politica estera interventista propugnata da buona parte dell’establishment statunitense. Muovendosi in modo similare a Obama del 2008, Trump criticò a più riprese la postura a suo dire troppo aggressiva assunta da Washington negli ultimi anni. Non solo attaccò George W. Bush per la guerra in Iraq ma anche la sua avversaria, Hillary Clinton, per l’intervento bellico in Libia da lei principalmente sponsorizzato nel 2011. Trump sembrava sostanzialmente muoversi nei binari di un approccio realista: un approccio quindi lontano dall’internazionalismo liberale. Non sarà stato forse un caso che, appena salito al potere, il neo presidente abbia richiamato ufficiosamente in servizio il vecchio Henry Kissinger: il segretario di Stato di Nixon che, negli anni ’70, fu l’artefice della distensione verso la Cina di Mao e l’Unione Sovietica di Breznev.
Per capire dove l’attuale amministrazione americana sta andando e – soprattutto – se sta tenendo fede a questa linea, Formiche.net ha deciso di intervistare Christopher Layne. Professore alla George Bush school of Government and Public Service presso la Texas A&M University, Layne è un accademico di orientamento neorealista. Membro del Council on Foreign Relations, ha talvolta criticato le posizioni dell’establishment di Washington.
Professor Layne, lei sostiene che la Pax americana avrebbe i giorni contati. Che cosa intende?
La Pax americana è emersa dalla Seconda Guerra mondiale. Si basava su una schiacciante preminenza economica e militare degli Stati Uniti. Nel 1945, per esempio, gli Stati Uniti rappresentavano di per sé la metà della produzione economica totale a livello mondiale. Gli Stati Uniti detenevano anche il monopolio delle armi atomiche e una capacità di proiezione globale (aerea e navale). Il 1945 fu davvero il “momento unipolare” dell’America. Oggi non è più il 1945. Già, secondo il Fmi, la Cina avrebbe superato gli Stati Uniti come economia numero uno al mondo (in base alla parità di potere d’acquisto). Numerosi studi dimostrano che la Cina sta rapidamente raggiungendo gli Stati Uniti in termini di potere militare in Asia orientale. In parole povere, la Pax Americana è finita perché la base su cui poggiava si è indebolita. Inoltre, è anche il sostegno ideologico alla Pax americana ad essersi affievolito. In parte a causa della Grande Recessione, le idee liberali sulla democrazia e sui mercati liberi si sono ritrovate screditate sia negli Stati Uniti che in Europa.
Lei è un grande sostenitore dell’offshore balancing. Può spiegarmi questo concetto?
L’offhsore balancing è una strategia internazionale basata sullo sfruttamento dei vantaggi geografici dell’America, i meccanismi del “bilanciamento del potere” e la deterrenza nucleare per ridurre i costi e rischi degli impegni militari oltreoceano, grazie a una politica di spostamento degli oneri e condivisione dei rischi. Per quanto riguarda l’Europa, non vi è alcun motivo in termini di risorse perché non dovrebbe essere in grado di difendersi senza l’assistenza degli Stati Uniti. Non c’è volontà politica in Europa per agire in questa direzione, comunque. Ironia della sorte, gli Stati Uniti hanno una parte di responsabilità in tutto questo. Finché l’Europa sa che gli Stati Uniti garantiscono la propria sicurezza, l’Europa non è incentivata ad assumere quelle difficili scelte politiche ed economiche che sarebbero necessarie per farle raggiungere l’autonomia strategica da Washington. E, per quanto ai politici americani piaccia lamentarsi del fatto che l’Europa non stia facendo la “giusta parte” per la difesa del continente, ogni volta che l’Europa ha cercato di costruire condizioni militari che le permettessero di essere strategicamente autonoma, Washington ha sempre risposto negativamente. Anzi, con ostilità. A meno che il nodo gordiano della continua dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti non venga reciso, a un certo punto potrebbe esserci una brutta rottura delle relazioni transatlantiche.
Secondo lei, gli Stati Uniti come possono contrastare l’ascesa della Cina?
Non possono. La Cina non sta ascendendo: è già ascesa. Gli Stati Uniti devono adattarsi a questa realtà. Se gli Stati Uniti tenteranno di mantenere l’egemonia regionale nell’Asia orientale, acquisita a seguito della Seconda Guerra Mondiale, si porranno sulla via del conflitto con la Cina. C’è un modello che seguono le potenze emergenti. La prima cosa che tentano di fare è dominare i propri cortili geopolitici. Questo era esattamente ciò che fecero gli Stati Uniti quando emersero come una grande potenza alla fine del XIX Secolo: essi cercarono di dominare i Caraibi e l’America centrale. Quindi, nel cercare l’egemonia regionale in Asia orientale, la Cina sta seguendo geopoliticamente lo stesso percorso fatto dagli Stati Uniti. Non possono esserci due potenze egemoni nella stessa regione contemporaneamente. Chiaramente, Pechino non abbandonerà la sua ricerca per l’egemonia in Asia orientale (e sudorientale). Se gli Stati Uniti non accettano questo, potrebbe esserci un conflitto con la Cina.
Qual è la sua opinione sulla Nuova Via della Seta?
La Nuova Via della Seta riflette il modello stabilito di grande potenza emergente. Le nuove grandi potenze non vogliono solo dominare la propria regione. Quando diventano più floride, cercano nuovi mercati oltremare. Anche in questo caso, l’ascesa della Cina è simile a quella degli Stati Uniti alla fine del XIX Secolo. Sarà difficile per Washington contrastare la Nuova Via della Seta. Gli Stati Uniti sono parsimoniosi quando bisogna dare assistenza allo sviluppo di altri Paesi. La Cina ha le risorse per investire in sviluppo, specialmente nelle regioni in cui gli Stati Uniti non sono coinvolti in modo profondo. La Nuova Via della Seta fornisce assistenza allo sviluppo per gli Stati che ne hanno bisogno e che non possono ottenerla altrove. Inoltre, gli Stati che aderiscono alla Nuova Via della Seta hanno accesso all’ampio mercato di consumo della Cina. Anche volessero imitare Pechino in questo senso, gli Stati Uniti sarebbero vincolati dal budget e dai deficit commerciali.
Quale strategia dovrebbero adottare gli Stati Uniti con la Russia?
Ai politici e agli analisti americani piace parlare molto dello “spazio post-sovietico”. Se avessero consapevolezza storica, si renderebbero conto che lo spazio post-sovietico è anche lo spazio pre-sovietico; territorio che o faceva parte dell’Impero russo o della sua sfera di influenza. Se – come affermano molti esperti di politica estera americana – la Cina rappresenta la principale minaccia agli interessi statunitensi, c’è da chiedersi per quale ragione Washington abbia seguito politiche di espansione della Nato (specialmente negli Stati baltici), in Crimea e in Ucraina: politiche che ignorano gli interessi storici della Russia. Un simile approccio non fa che spingere Mosca tra le braccia della Cina.
Che cosa pensa della politica di Donald Trump rispetto a Russia e Cina?
Non sono sicuro che Trump abbia una politica nei confronti della Russia o della Cina. Ma l’establishment statunitense ce l’ha. È una politica che punta a mantenere il primato americano. E questa è una politica che porterà a conflitti sia con la Russia che con la Cina. Washington deve ancora capire che il “momento unipolare” è finito. Dall’altra parte, l’offshore balancing è una strategia americana per un’era post-egemonica.
Come giudica la strategia americana nella crisi venezuelana?
Il Venezuela è sull’orlo del collasso economico. Il Chavismo – e Nicolàs Maduro – sono stati screditati. Tuttavia, gli Stati Uniti devono resistere a qualsiasi tentazione di intervenire militarmente per provocare un cambio di regime. I latinoamericani sono sensibili a quello che storicamente chiamano “imperialismo yankee”. Ci sono molte altre nazioni nella regione che risultano preoccupate per la situazione in Venezuela. La migliore politica per gli Stati Uniti – sia a breve che a lungo termine – è di stare ai margini e lasciare che le principali nazioni dell’America Latina, e il popolo venezuelano, agiscano per conto proprio. Se Washington sceglierà il gioco pesante in Venezuela, la cosa potrebbe ritorcerglisi contro.
Secondo lei, Donald Trump è un realista o sta continuando a sostenere un approccio di internazionalismo liberale?
È difficile attribuire una visione del mondo coerente a Donald Trump. Lui segue quelli che definisce i suoi “sentimenti istintivi”. Alcuni di questi si legano a visioni realiste della strategia statunitense così come articolata da studiosi come Stephen Walty, John Mearsheimer, Barry Posen, Michael Desch e me. Tuttavia, nella misura in cui gli istinti di Trump corrispondono all’ “offshore balancing”, non è probabile che questo approccio diventi la politica estera ufficiale degli Stati Uniti. Questo perché l’establishment di Washington è ancora molto vicino all’internazionalismo liberale e fautore del primato americano. In tal senso, l’establishment resiste a ogni approccio strategico basato sul ritiro del potere statunitense. Un buon esempio di questa situazione è il modo con cui l’establishment e l’esercito stanno rallentando gli obiettivi di disimpegno militare, auspicati da Trump, in scenari come l’Iraq, la Siria e l’Afghanistan.