Gli Stati Uniti vogliono azzerare le esportazioni petrolifere iraniane, il principale asset economico del paese, e per farlo hanno deciso di non rinnovare il sistema di esenzioni concesse a novembre a otto paesi (tra cui anche l’Italia) per non scombussolare il mercato del greggio.
Il segretario di Stato Mike Pompeo s’è presentato alle 8:45 di questa mattina (ora di Foggy Bottom, Washington) ai giornalisti e ha spiegato la decisione. “L’amministrazione Trump ha portato le esportazioni petrolifere dell’Iran ai minimi storici e stiamo accelerando drammaticamente la nostra campagna di pressione in modo calibrato, rispettando i nostri obiettivi di sicurezza nazionale, pur mantenendo mercati petroliferi globali ben forniti”.
Maximum pressure on the Iranian regime means maximum pressure. That’s why the U.S. will not issue any exceptions to Iranian oil importers. The global oil market remains well-supplied. We’re confident it will remain stable as jurisdictions transition away from Iranian crude.
— Secretary Pompeo (@SecPompeo) April 22, 2019
La notizia era stata annunciata alla stampa ieri, e questo aveva fatto aprire il mercato del greggio con la cifra record per il 2019: il Brent sta a 73,5 dollari al barile (è la legge domanda/offerta: chiudere i rubinetti iraniani significa togliere dal mercato circa un milione di barili di petrolio, a cui si unisce la riduzione dovuta alla guerra in Libia e alla crisi in Venezuela).
“Sosteniamo i nostri alleati e partner mentre passano dal greggio iraniano ad altre alternative. Abbiamo avuto discussioni ampie e produttive con l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e altri importanti produttori per facilitare questa transizione e garantire un’offerta sufficiente. Questo, oltre ad aumentare la produzione negli Stati Uniti, sottolinea la nostra fiducia che i mercati energetici rimarranno ben forniti”, ha detto Pompeo.
Negli ultimi giorni, ci conferma una fonte diplomatica in forma discreta, i contatti tra Washington, Riad e Abu Dhabi sono stati intensissimi: gli Usa hanno coinvolto i due principali alleati mediorientali (insieme a Israele) in una delle principali decisioni del quadro delle policy anti-Iran. Un confronto che l’amministrazione Trump – una delle più severe di sempre con la Repubblica islamica – ha avviato fin da subito in collaborazione con i partner regionali con cui condivide preoccupazioni sull’espansionismo iraniano.
Saudi Arabia and others in OPEC will more than make up the Oil Flow difference in our now Full Sanctions on Iranian Oil. Iran is being given VERY BAD advice by @JohnKerry and people who helped him lead the U.S. into the very bad Iran Nuclear Deal. Big violation of Logan Act?
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) April 22, 2019
Il ministro dell’Energia saudita ha già detto di essere pronto a sopperire le necessità di produzioni cui il mercato andrà incontro. L’Iran ha fatto sapere, tramite fonti anonime alle agenzie governative, di essere invece pronto a chiudere lo Stretto di Hormuz strozzatura che restringere il Golfo Persico tra Bandar Abbas e Kumzar (Oman). È ovvio che sulla questione si ripercuotono effetti di carattere geopolitico regionale: Arabia Saudita e Iran sono da tempo in lotta per aggiudicarsi il ruolo di potenza centrale in Medio Oriente. Hormuz è centrale: il governo di Teheran dice sostanzialmente che se quello rotte petrolifere strategiche non possono essere usate per l’export iraniano allora nessun altro potrà farlo. Ma se deciderà davvero di chiudere lo stretto è possibile che la potenza talassocratica americana decida di sfondare la riapertura con la forza. In Bahrein, poche miglia nautiche a nord di Hormuz, c’è l’hub della Quinta Flotta della US Nancy; in Qatar quello del CentCom nella grande base di Al Udeid; negli Emirati, ad al Dhafra, nei giorni scorsi sono arrivati i primi quattro F35 in assetto operativo schierati in Medio Oriente.
“L’annuncio di oggi si basa sui già significativi successi della nostra campagna di pressione”, spiega Pompeo: “Continueremo ad applicare la massima pressione sul regime iraniano finché i suoi leader non cambieranno il loro comportamento distruttivo, rispetteranno i diritti del popolo iraniano e torneranno al tavolo dei negoziati”.
In questo ultimo passaggio, il segretario ha svelato uno degli obiettivi del piano aggressivo contro Teheran: portare il governo iraniano a un nuovo tavolo di trattative dopo quello che gli Stati Uniti stessi hanno fatto saltare ritirandosi dal Jcpoa l’accordo per congelare il programma nucleare degli ayatollah. Con una differenza: il Nuke Deal è stato raggiunto all’interno di un sistema negoziale multilaterale noto come “5+1” (i cinque del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania), mentre la Washington trumpiana preferirebbe per genetica un approccio bilaterale.
I paesi cui non è stata confermata l’esenzione, che gli americani chiamano waivers, sono Italia, Giappone, Corea del Sud, Turchia, Cina, India, Taiwan e Grecia. Italia, Grecia e Taiwan avevano già ridotto quasi a zero le relazioni petrolifere con l’Iran, che erano state riaperte dal sollevamento delle sanzioni successivo all’entrata in vigore del Jcpoa.
Secondo la gran parte degli analisti, l’obiettivo di portare a zero l’export petrolifero iraniano è un obiettivo non praticabile per gli Stati Uniti che trovano in effetti già l’opposizione del principale acquirente di greggio dalla Repubblica islamica, la Cina, che importa circa la metà del suo fabbisogno totale. Pechino, con cui Washington ha ingaggiato un confronto totale, ha già usato il dossier iraniano per attaccare gli Stati Uniti e prendere posizioni diversi da spendere con altri attori internazionali.
I cinesi hanno cercato di giocare di sponda con i firmatari europei del Jcpoa e con la Russia per mantenere in piedi l’accordo: c’è una dimensione politica (tenere una linea opposta a quella americana) e c’è quella tecnica legata agli acquisti di petrolio dall’Iran. Hanno già espresso forte opposizione sia alle sanzioni unilaterali di Washington sia al ritiro Usa dall’intesa e oggi, durante la conferenza quotidiana dal ministero degli Esteri, il governo cinese ha detto che “proteggerà i suoi legittimi diritti”.
Questa competizione/scontro tra Usa e Cina è anche strettamente collegata al futuro del petrolio iraniano: se Pechino continuerà a comprare petrolio dall’Iran, allora tutto dipenderà da quanto gli americani decideranno di fare con i cinesi.
Anche la Turchia s’è formalmente opposta alla decisione americana tramite il ministro degli Esteri. Ankara è alleata a Washington anche nel quadro Nato, ma da qualche anno le relazioni sono degenerate. I inoltre turchi sono invischiati in Siria su un fronte politico-negoziale guidato dalla Russia e che include anche l’Iran. Inoltre sono in competizione con l’Arabia Saudita per guida del mondo sunnita: con Riad c’è uno scontro di alto livello sull’interpretazione dell’Islam politico.
(Foto: dipartimento di Stato, Twitter)