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Banca d’Italia riporta alla realtà dopo gli eccessivi entusiasmi del governo

Banca d'Italia

Mentre Luigi Di Maio, nello stabilimento Avio Aero di Pomigliano d’Arco (Na), inneggiava alla fuoriuscita dell’Italia dal cono d’ombra della recessione, deridendo “le previsioni dei più catastrofistici”, ecco il gelo di Banca d’Italia. Quel piccolo refolo di crescita, nel primo trimestre del 2019, che l’Istat ha quantificato nello 0,2 per cento, è una rondine che non fa primavera. “ I rischi per la stabilità finanziaria – indica il relativo rapporto – derivanti dall’evoluzione dell’economia globale sono in aumento”. Le cause sono quelle note, derivanti soprattutto dalle tensioni commerciali tra la Cina e gli Stati Uniti e dai rischi di un dilagare del protezionismo. Fenomeni destinati a colpire principalmente le “economie maggiormente dipendenti dalla domanda estera come la Germania e l’Italia”. Con una differenza, tuttavia. In Germania il tasso di disoccupazione è pari al 3,4% (dicembre 2018) in Italia al 10,6.

Una volta era la Cina ad impensierire, con i suoi forti attivi della bilancia dei pagamenti. Prima della grande crisi, il surplus aveva raggiunto il 9,9% del Pil, consentendo al Celeste impero di accumulare miliardi di dollari per le sue riserve valutarie. Ma oggi la situazione è completamente mutata, la crescita della sua domanda interna, imposta dalle nuove politiche di Xi Jinping, ha determinato un sostanziale pareggio. Una prospettiva sul quale l’intero Governo italiano dovrebbe riflettere, invece di inseguire, come fanno i 5stelle, il mito di un ulteriore rilancio delle esportazioni in quel lontano pezzo di mondo. Cosa ovviamente buona e giusta, ma nell’ambito di una politica equilibrata che non determini ciò che si è ancora verificato nel primo trimestre dell’anno. Con quello striminzito tasso di crescita determinato, come certifica l’Istat, da “un contributo negativo della componente nazionale (al lordo delle scorte) e un apporto positivo della componente estera netta”. Quella che, secondo le parole di Banca d’Italia, è più esposta alle turbolenze internazionali.

È la grande fragilità dell’economia italiana, dalla quale non si esce con politiche convenzionali. Pesa naturalmente l’ingente debito pubblico accumulato. Una zavorra con cui l’Italia convive dall’inizio della sua storia unitaria. Dal 1861 ad oggi il debito pubblico italiano è stato in media superiore all’83% del Pil. A dimostrazione di quanto possa essere difficile per un Paese come il nostro seguire i precetti di Maastricht, che ne ipotizzano la progressiva discesa fino al 60% . Valori che furono toccati solo nel corso dei “Trente glorieuses”, come dicono gli storici francesi. Vale a dire nel periodo 1945 – 1975: la “golden age” secondo un’accezione di carattere più generale. Anni in cui l’intera Europa, e l’Italia tra questi, conobbe un ritmo di sviluppo senza precedenti e mai più replicato.debito pubblico

In questo contesto pensare a politiche di tipo deflazionistico rappresenta un azzardo morale. L’eventuale aumento dell’Iva, per un importo pari a 23 miliardi, avrebbe l’effetto di comprimere ulteriormente la domanda interna con un riflesso immediato ed amplificato sulla caduta del Pil. Si rischierebbe, in altre parole un bis del 2012. L’anno, caratterizzato dalla fase più acuta della crisi greca, in cui la divergenza nel ritmo di (de)crescita dell’Italia, rispetto all’Eurozona fu massima: meno 2,8%, contro una media di meno 0,9%: dato medio comprendente l’Italia. Al netto di questi ultimi valori, la media dell’eurozona sarebbe risultata decisamente più performante. Si deve solo aggiungere che danni maggiori furono evitati grazie soprattutto alla componente estera che compensò, seppure parzialmente, il crollo dei consumi e degli investimenti. Il deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti che nel 2011 aveva raggiunto il 3% del Pil, fu, praticamente azzerato (meno 0,3%).

Ma se la manovra deflattiva, qualsiasi forma prenda (Iva, aumento netto di altre imposte, riduzione della spesa pubblica, patrimoniale ecc.), non può essere nemmeno evocata, non resta che aumentare il deficit di bilancio e con esso il rapporto debito – Pil. La banca d’Italia mette in guardia contro quest’eventualità. “L’alto livello del debito – avverte – rende l’economia italiana esposta alle tensioni sui mercati finanziari e riduce la capacità della politica di bilancio di sostenere l’attività produttiva di fronte alle fasi di rallentamento”. Preoccupa non tanto la risposta della Commissione europea, quanto quella dei mercati. Un eventuale ulteriore aumento degli spread non potrebbe che avere una ricaduta sulla dinamica del credito interno. Aumenterebbero i tassi di interesse, già in tensione. Il credito diverrebbe più selettivo a danno soprattutto delle piccole e medie imprese. Ne deriverebbe una forte caduta degli investimenti, accompagnata da fenomeni di crisi per le unità produttive più deboli.

Strada senza uscita: come si vede. Se non vi fossero fattori positivi che offrono un margine di speranza, sempre che un Governo, all’altezza della situazione, sia in grado di valorizzarli. A fronte dei rischi evidenziati, scrive ancora la Banca d’Italia “l’economia italiana è però caratterizzata da un’elevata resilienza, derivante da diversi fattori: il saldo corrente della bilancia dei pagamenti è in attivo dal 2013, mentre la posizione netta verso l’estero è lievemente negativa e dovrebbe diventare creditoria nel corso del prossimo anno; la ricchezza delle famiglie è elevata e l’indebitamento del settore privato è tra i più bassi nell’area dell’euro; la lunga vita media residua dei titoli di Stato rallenta la trasmissione del rialzo dei rendimenti all’emissione al costo medio del debito”.

Fattori che possono, anzi che debbono, essere sfruttati. Ma la precondizione è quella che vi sia un Governo in grado di farlo: coeso e determinato nel suo programma di sviluppo, capace di resistere alle lusinghe della “decrescita felice” e alle fumisterie della “rivoluzione degli incompetenti”. In cui la logica del cambiamento non sia solo la scusa per il semplice ricambio delle élites, ma la riconciliazione con un sapere che seppure ha mostrato colpevoli ritardi nel cogliere le trasformazioni intervenute nell’economia e nella società italiana. Può recuperare il tempo perduto, facendo sponda su quel blocco sociale che, nonostante gli errori, ha saputo compiere quel piccolo miracolo, che i dati di Banca d’Italia sono in grado di testimoniare.

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