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Bolton e Trump divisi sul Venezuela (e non solo)?

bolton

Alla Casa Bianca si respira una certa tensione. Quanto accaduto con la crisi venezuelana sta infatti evidenziando un crescente stato di nervosismo tra il presidente americano, Donald Trump, e il National security advisor, John Bolton. Come suggerisce la testata The Hill, nonostante una compattezza di facciata, i due non sembrerebbero condividere esattamente la stessa linea sulla questione. E, del resto, una certa differenza era iniziata ad emergere già negli ultimissimi mesi. Non è un mistero che Bolton sia da sempre stato favorevole a un approccio duro sul dossier venezuelano: non soltanto ha spesso invocato un intervento diretto delle truppe statunitensi ma ha anche affermato di voler vedere Nicolas Maduro imprigionato nel carcere di Guantanamo.

LA POSIZIONE DI TRUMP SUL VENEZUELA

In tal senso, il National Security advisor ha auspicato un cambio di regime dalle parti di Caracas, trovando in questo una sponda da parte del Dipartimento di Stato. Trump, dal canto suo, si è mostrato invece molto cauto, abbracciando una posizione decisamente più sfumata. Pur avendo garantito appoggio politico a Juan Guaidò, il presidente – almeno sino a oggi – ha evitato un coinvolgimento troppo diretto degli Stati Uniti nella crisi venezuelana. In particolare, ha sempre tirato il freno a mano sulla possibilità di inviare truppe americane in loco. Una differenza di vedute notevole, dunque. Una differenza di vedute che potrebbe essere alla base del fallimento dell’ultimo tentativo di rivolta, condotto da Guaidò.

Se il dossier venezuelano sta facendo lentamente affiorare queste diversità, Caracas non rappresenta comunque l’unico elemento di divisione tra Bolton e Trump. Non dimentichiamo infatti che il National Security advisor sia un falco, da sempre gravitante attorno a fondazioni e think tank di chiara ispirazione neoconservatrice (a partire dall’American Enterprise Institute). Fautore di una politica estera aggressiva e a tratti bellicosa, Bolton ha costantemente propugnato la linea dura nei confronti dei tradizionali nemici dell’America, criticando in quest’ottica ogni tentativo di distensione. In particolare, si è sempre mostrato come un irriducibile avversario di Russia, Iran e Corea del Nord. Non solo perché questo suo approccio energico si è in passato sovente accompagnato a una vera e propria fissazione con spericolate teorie di nation building: nel 2009, propose per esempio di risolvere il conflitto israeliano-palestinese con una soluzione “a tre Stati”, mentre un’altra sua idea è quella di creare uno Stato di soli sunniti tra Iraq e Iran per contrastare l’Isis (il cosiddetto Sunnistan).

Trump, dal canto suo, ha sovente criticato l’interventismo di stampo neocon: ai tempi della campagna elettorale del 2016, il magnate bersagliò la politica estera delle amministrazioni di Bill Clinton e George W. Bush, considerandola inutilmente costosa e attaccando soprattutto le strategie di nation building. È chiaro come – da questo punto di vista – la lontananza non potrebbe essere maggiore. E attenzione: perché si tratta di un problema che riguarda anche il segretario di Stato, Mike Pompeo. Un profilo di per sé molto più vicino all’approccio di Bolton che non a quello di Trump. Un profilo storicamente avverso alla Russia e alla Corea del Nord. Un profilo che l’anno scorso andò a sostituire una figura come quella di Rex Tillerson: un realista di stampo kissingeriano, tra le altre cose amico di Vladimir Putin.

PERCHÉ LA DIPLOMAZIA AMERICANA È IN MANO A BOLTON E POMPEO?

Alla luce di queste differenze sarebbe forse lecito domandarsi per quale ragione Trump abbia virato su Bolton e Pompeo per guidare la diplomazia americana. Con ogni probabilità, la scelta fu dettata da dinamiche di politica interna. Non solo il presidente aveva necessità di gettare un ponte verso l’establishment di Washington (con cui non ha mai intrattenuto ottimi rapporti). Ma in ballo c’era anche una questione di equilibri interni allo stesso Partito Repubblicano. Senza dimenticare poi che, nell’anno in cui fu in carica, Tillerson aveva incontrato una certa ostilità da parte dei funzionari del Dipartimento di Stato: funzionari evidentemente non troppo convinti dalla sua linea di Realpolitik.

Una scelta dettata da problematiche interne sta adesso tuttavia mostrando i suoi limiti. E – come si diceva – è stato il Venezuela a fungere da detonatore. Anche perché, al di là delle tensioni sotterranee suddette, non dobbiamo dimenticare che, pochi giorni fa, Trump abbia avuto una conversazione telefonica con Vladimir Putin. Una conversazione cordialissima che è suonata come una vera e propria sconfessione della linea dura, auspicata da Bolton, su Caracas e Mosca. Problemi simili si riscontrano del resto anche con Pompeo, visto che – qualche settimana fa – la leadership nordcoreana ha tacciato il segretario di Stato americano di remare contro la distensione tra Washington e Pyongyang. Insomma, alla Casa Bianca iniziano a manifestarsi delle crepe sul fronte della politica estera. E, al di là della questione venezuelana, è possibile che questa situazione stia sorgendo adesso per due ragioni. In primis, pare proprio che Trump abbia intenzione di riprendere il processo di distensione verso la Russia. In secondo luogo, non va trascurato che la campagna elettorale del 2020 stia pian piano entrando nel vivo: in questo senso, il presidente sa benissimo che buona parte dell’elettorato americano non nutre ormai troppa simpatia per costose politiche interventiste in giro per il mondo. Ragion per cui, una linea come quella di Bolton potrebbe a un certo punto rivelarsi un boomerang sotto l’aspetto elettorale.

DOVE PORTERANNO LE TENSIONI BOLTON-TRUMP?

Nel caso venisse prima o poi silurato, Bolton sarebbe il terzo National Security advisor a saltare (dopo Mike Flynn e Herbert McMaster). Inoltre, non sarebbe neppure il primo nome eccellente a saltare (basti pensare all’uscita di scena, pochi mesi fa, del segretario alla Difesa James Mattis). È comunque ancora troppo presto per dire se queste tensioni si trasformeranno in una rottura insanabile. Ma, sotto la cenere, la vecchia anima del presidente continua ad esistere. E la lotta all’establishment, posto che si fosse sopita, potrebbe ricominciare molto presto.



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