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Come nacquero le quattro modernizzazioni e le attuali scelte di Xi Jinping

coronavirus, Li Wenliang

È il 13 settembre quando Lin Biao cerca di fuggire in Urss, con tutta la sua famiglia e a bordo di un Trident dell’aviazione civile, partito con poco carburante e nessun contatto radio attivo. La caduta del velivolo in Mongolia, dove perirono sia Lin che tutta la sua famiglia, fu causata dall’ordine, direttamente da parte di Mao, di abbattere l’aereo. Cosa era successo, in termini, ovviamente, politici e non personali? Semplice: Lin Biao era durissimamente contrario al nuovo accordo tra Cina e Stati Uniti, e quindi aveva organizzato un golpe militare. Per Lin, tutto lo spazio della geopolitica Usa era disegnato sul terreno di quello che, tradizionalmente, le forze della Terza Internazionale definiscono come “imperialismo”. Per Mao Zedong, l’imperialismo era vitale sia per l’Urss che per gli Stati Uniti, e si rifiutava, lontano com’era dal premio per chi vincesse la guerra fredda, l’Europa, di fare troppe differenze tra i due. Uomo del tao e dello zen, Mao curava un male con un altro male.

Ma Mao Zedong sapeva anche che era necessario un nuovo legame economico con Washington, dopo la lunga crisi economica e la instabilità frazionista interna al regime cinese. L’Urss non poteva certo dargliela, la stabilità economica, quindi il “grande Timoniere” si rivolse al nemico lontano, piuttosto che al quasi-amico vicino. Non si capisce niente, della Cina, anche di quella attuale, se si separano le scelte geopolitiche da quelle economiche, finanziarie, industriali che, comunque, sono sottoposte alla “linea” strategica definita dal Partito, linea che è culturale e sempre di lungo, lunghissimo periodo. Si riapre, insieme a quella con Washington, anche la relazione diplomatica con il Giappone, il 29 settembre 1972. Evidente sovrapposizione di linee geopolitiche diverse, Usa e Sol Levante che, però, nella mente dei Decisori cinesi, sono affini.

Anche dal punto di vista simbolico. L’anno successivo riappare in pubblico Deng Xiaoping, per ordine diretto di Mao Zedong. Ma questi sono anche gli anni del tardivo successo definitivo della “linea” di Zhou Enlai, che ha passato la “nottata” della Grande Rivoluzione Culturale e Proletaria, che pure lo aveva in parte travolto, e dirige il X congresso del Pcc. È questo il compromesso che regge il Partito, dopo l’eliminazione di Lin Biao, un accordo instabile tra “destra” riformista (Zhou aveva parlato di “quattro modernizzazioni” molti anni prima, nel 1965) e la sinistra, ormai silenziata da Mao, che ha passato la linea rossa della Rivoluzione Culturale e della ormai fallita comunistizzazione delle campagne. Anche la sinistra del Partito è priva, in quegli anni, di elementi di gestione di massa del popolo e del Partito, e deve accordarsi con le altre correnti, mentre Mao media tra tutti, e crea anche terzi incomodi. Creare qualcosa dal nulla, uno dei 36 stratagemmi dell’arte militare cinese. Nel 1973, poco prima che l’equilibrio tra Zhou e i vecchi apparati del Pcc si rompa di nuovo, viene pienamente riabilitato Deng Xiaoping, che entra anche nell’asse profondo del regime cinese, la Commissione Militare Centrale. Nel 1975, sarà proprio Deng a essere eletto vice-presidente del CC e membro del comitato permanente dell’ufficio politico. Il nesso tra riformisti, se così possiamo chiamarli, della parte di Zhou Enlai, e il “centro” dell’apparato del Partito, che si riprende i suoi ruoli estromettendo le Forze Armate, ha vinto ancora una volta.

Sempre in quell’anno, l’Assemblea nazionale del Popolo elogia le già proposte, da Zhou, “quattro modernizzazioni” e auspica, così dice la dichiarazione finale, “che la Cina sia trasformata in un paese socialista moderno e potente in poco più dei vent’anni che ci separano dalla fine del secolo”. La trasformazione politica tramite l’economia nuova, la salvezza del Regime tramite la stessa trasformazione politica. Potremmo chiamarlo “il Tao della geo-economia”. Accelerazione della industrializzazione e della modernizzazione, ma senza creare, ed è questa la vera differenza con l’Urss degli anni ’30, il disastro delle masse contadine, che non sono oggettivamente capaci di fornire il capitale d’inizio o di avvio di nessuna delle quattro modernizzazioni. Occorrerà produrlo nelle imprese innovative e captarlo da fuori.

Ma il Pcc non è, in quel momento, ancora saldo nelle mani di nessuna delle fazioni: nel 1975, a settembre, la conferenza nazionale agricola vede lo scontro duro tra Deng Xiaoping e il vecchio “gruppo di Shangai” della Rivoluzione Culturale e Proletaria che, però, non ha più il polso della grande massa del Partito. Muore Zhou Enlai nel gennaio 1976, e poco dopo, in piazza Tien An Mien, vi sono incidenti gravi, ma con la costante presenza di tante corone di fiori che ricordano Zhou. Ci saranno anche scioperi e agitazioni, negli anni successivi, fino alla cattura e al processo della “Banda dei Quattro” di Shangai, che ha ispirato la “Rivoluzione Culturale” e che oggi viene accusata direttamente da Hua Guofeng, l’uomo che Mao ha voluto per dirigere la transizione, di aver preparato un colpo di Stato. E’ sempre dalle campagne che inizia, però, la trasformazione della Cina: si discute di modernizzazione, la prima, quella delle campagne, alla seconda conferenza agricola di Dhazai, il dicembre del 1976, dove vengono descritti e stigmatizzati vari casi di corruzione e di “polarizzazione sociale”. Se regoli troppo, creai il mercato parallelo e illecito.

È sempre così. Ovvio, ancora, che ciò accada se si applica la comunistizzazione totale al ciclo economico delle campagne. Residui questi di sovietismo nella dottrina cinese del Pcc, certamente, ma anche di applicazione a-dialettica del marxismo-leninismo, in ambiti storici e sociali in cui l’analisi del fondatore del “comunismo scientifico” non si era mai addentrata. Se si leggono i manoscritti e i carteggi che Marx volle dedicare alla questione agricola russa, si nota, infatti, come l’autore del “Capitale” prevedesse una diretta trasformazione sociale socialista dal mantenimento delle reti sociali e comunitarie dei villaggi tradizionali. Strano, ma è così. Un sistema, questo, che opera solo con uno stato non-industrializzato e poco diffuso sul territorio. Altrimenti, il problema è quello del capitalismo nelle campagne, per generare il surplus degli investimenti urbani e industriali. Anche nel II Libro del “Capitale”, il modello di Marx è sostanzialmente questo. È proprio sulla questione agricola che si definisce la stabilità e il successo dei tanti regimi comunisti e, non a caso, la prima delle quattro modernizzazioni di Zhou, e poi di Deng, sarà proprio quella dell’agricoltura. Il tema corre in tutte le organizzazioni del Partito, ma è alla fine del dicembre 1978 che la Terza Sessione Plenaria dell’XI CC del Pcc decide di decentrare l’economia, altro elemento fortemente difforme dalla tradizione leninista, e perfino di liberalizzarla, oltre a un processo di revisione ideologica (Gaige Kaifang) che vuol dire, pressappoco, “riforma ed apertura”.

A ciò si rapporta anche la richiesta dell’apertura degli scambi internazionali sulla base del criterio del “mutuo beneficio” e dell’eguaglianza tra i vari Paesi. Deng diviene, così, il leader supremo, anche sul piano ideologico, del Partito come anche della macchina statale, e annuncia la politica della Porta Aperta. Un dato estremamente importante è, poi, la separazione della Banca della Cina dalla Banca Popolare della Cina, per fare da ente unico statale dei cambi esteri. È da qui che inizia, con un Partito insolitamente unito, la “Lunga Marcia” verso le Quattro Modernizzazioni e, oggi, verso il “socialismo con caratteristiche cinesi” e, sul piano geopolitico, la Nuova Via della Seta di Xi Jinping. Nel 1980, a gennaio, vengono abolite le “quattro libertà”, di lavoro, della persona, delle merci e dei capitali. La nuova pianificazione ha bisogno di gestire tutti gli aspetti delle forze produttive. Tutto ciò si spiega con una guerra coperta della economia cinese contro la penetrazione di capitali e società miste straniere, che infatti vengono subito regolamentate da una apposita normativa, emanata però nell’anno precedente. Da Hong Kong riprende la grande operazione britannica di controllo economico delle coste cinesi meridionali, ma il governo di Pechino elimina la possibilità di una tale azione di Londra (e degli Usa, almeno in parte). La compattezza del Partito, si deve quindi riflettere, in un contesto nuovo e, per certi aspetti, nell’intera società, per evitare che l’economia liberalizzata cinese si porti via il Partito e il socialismo.

Una nuova ratio per l’unità leninista del Pcc. E la nuova legge sul diritto contrattuale arriva, nel marzo 1981, e l’anno dopo è disponibile anche il nuovo diritto di procedura civile, che diverrà effettivo il 1° ottobre. Al XII congresso del Pcc, l’anno dopo, di settembre, i gruppi interni al Partito sono tre: i nostalgici maoisti, una piccola e risicata maggioranza per Deng Xiaoping, poi gli ortodossi che vogliono ancora una economia pianificata a livello nazionale, come in Urss, forse gli eredi, quindi, di Lin Biao, infine i riformisti veri e propri. Vince Deng, con una maggioranza chiara ma non pienissima. Tutti sono, in effetti, in attesa che le Quattro Modernizzazioni falliscano, quindi, per ritornare al vecchio tran-tran del Piano. Spesso, come capitava anche in Urss, del tutto fantasioso rispetto alla realtà effettuale delle cose fatte e prodotte. Ma è nel 1983 che arriva la strategia del Terzo Fronte, ovvero quella direttiva di Mao, elaborata già nel 1962, secondo la quale le industrie strategiche del Paese devono essere trasferite dalle coste, militarmente e politicamente difficili da difendere, all’interno.

Senza questa direttiva di Mao, non si capisce oggi nemmeno la Nuova Via della Seta. 14 città costiere aperte, quindi, che vengono dichiarate tali nel 1984, ma con una nuova legge sui profitti che farà da architrave delle Modernizzazioni: alle imprese viene chiesto di versare una certa quota dei profitti al governo, ma esse possono trattenere dei profitti, qualora essi superino i requisiti del contratto con lo Stato. Nel 1985 ancora una nuova normativa coinvolge anche i titoli di Stato, inizia il settimo Piano Quinquennale, in cui si sottolinea un approccio “a scala”, in cui sono le zone costiere, liberate progressivamente dalle imprese strategiche tradizionali, a trainare lo sviluppo economico, sviluppo che poi si diffonderà a macchia d’olio anche nelle aree interne. È il modello di Hong Kong, che i dirigenti di Deng Xiaoping copiano e adattano dalla colonia inglese. Per un breve tempo, gli analisti cinesi e i programmatori del Partito guarderanno anche al modello-Singapore, con il partito (unico anch’esso) di Lee Kuan Yew. Non a caso proprio Shenzen è vicina al territorio ex-britannico, e spesso i cinesi attirano e favoriscono le imprese dell’area inglese, verso le nuove zone costiere cinesi anch’esse a libero mercato. Servizi evoluti e high tech nelle zone costiere, lavorazioni a minore valore aggiunto, ma comunque inevitabili, nell’interno.

Un nuovo dualismo, dove la sovrappopolazione agricola dovrebbe essere progressivamente assorbita dalle imprese strategiche interne. Un doppio status geopolitico delle aree interne che si ripete, in molti casi, anche nella Belt and Road attuale. Finisce poi, nel 1986, il contratto “fisso” e permanente, per la manodopera, nelle aziende di Stato. L’anno dopo, a ottobre, si terrà il XIII Congresso del Pcc, in cui si parla per la prima volta di “economia delle merci”, ovvero di un meccanismo a due livelli, in cui il mercato viene affiancato e anche “corretto” dalla vecchia pianificazione nazionale. Una sorta di riedizione, ad uso interno, della formula “un Paese, due sistemi” applicata, da Pechino, con gli accordi per Macao e Hong Kong. Ma due anni dopo, nel 1988, la VII Assemblea Nazionale del Popolo legittima ufficialmente l’iniziativa privata (non la semplice proprietà) e si permette, da parte di privati, l’acquisto di imprese statali. Viene inoltre cancellato il termine “proprietà del Popolo”, mentre individui e gruppi, anche non-cinesi, possono acquistare, con un sistema simile a quello del leasing immobiliare britannico, i terreni. I profitti, ovunque realizzati, devono essere reinvestiti nell’impresa che li ha prodotti, prima di chiedere qualsiasi finanziamento alla Banca del Popolo. Le Zone Economiche Speciali, modellate sempre sul sistema di Hong Kong, divengono cinque. Sulle coste l’innovazione, nel territorio centrale le imprese, soprattutto pubbliche, di tipo strategico, che rimangono ancora quasi del tutto pubbliche. Nell’aprile 1989 arriva al potere Jiang Zemin.

Iniziano anche le manifestazioni di studenti in Piazza Tien An Mien, dove, anno dopo anno, si raduneranno le varie organizzazioni anti-regime: Falun Gong, le reti dei molti partiti illegali, le organizzazioni sindacali non riconosciute, molti gruppi spontanei. E qualche vecchia “guardia rossa”. Zhao Ziyang, il capo del Partito già defenestrato da Jiang Zemin, è, di fatto, al centro dell’organizzazione “spontanea”. Nascono, sempre legalmente, le varie Federazioni Autonome dei Lavoratori, distribuite per località e non per settore di lavoro. La visita di Gorbaciov arriva nel maggio 1989. È questo il momento-chiave di una lunga storia di differenze dottrinali, pratiche, culturali, storiche che divide, fin dall’inizio, i due grandi eredi orientali della Terza Internazionale marxista-leninista. Il tema che importa davvero alla dirigenza di Pechino è che la crisi russa non travolga i comunisti cinesi: ecco il senso della dichiarazione, fatta sottoscrivere a Gorbaciov, che riguarda la “coesistenza pacifica” tra i due regimi comunisti. Il capo del Partito sovietico viene, nemmeno tanto elegantemente, preso in giro: non perché ha riformato il sistema economico sovietico, peraltro in un modo che i cinesi considerano sbagliato, ma per un solo motivo: ha fatto cadere il ruolo del Partito nel processo riformista, che il Pcus doveva invece dirigere, per Pechino, fin dall’inizio.

Un errore, diranno gli ideologi del Pcc, di tipo “economicista”, ennesima testimonianza della rozzezza marxista del “nemico del Nord”, come Deng Xiaoping chiamava i russi. Scorrono risolini, tra le labbra dei dirigenti cinesi, poi Gorbaciov rispiega le sue perestrojke e glas’nost, ma loro, il cui potere è basato sulle baionette del Partito, continuano a non prenderlo sul serio. Giorni prima dell’arrivo del segretario sovietico, si erano raccolte in Piazza Tien An Mien almeno un milione di persone. I problemi che si trova a decidere, in breve tempo, la dirigenza cinese sono radicali: vince l’ala “dura”, che prima era in minoranza, e riesce a convincere Jiang Zemin. Il Partito e la sua autorità, base di ogni trasformazione, anche la più radicale, vengono ristabilite senza tanti discorsi. Impossibile pensare ad un erede della “Lunga Marcia” che scioglie il Partito nella “società”. Il 19 maggio il Pcc decide, quindi, per la linea dura e le forze militari raggiungono, dalla periferia di Pechino, le aree vicine alla Piazza. Dopo poche ore, ma con le maniere forti, la Piazza è del tutto sgomberata. Poco dopo, al 4° plenum del Pcc, Jiang Zemin, anche in seguito alle esperienze di Piazza Tien An Mien, riprende una sua vecchia teoria; ed elabora il modello delle “Tre Rappresentanze”, ovvero l’idea che il potere del PCC si basa sulla sua “vasta rappresentanza” delle forze produttive cinesi, delle avanguardie culturali e tecnologiche, dei vasti strati della popolazione. In altri termini, si riforma la società cinese e, soprattutto, l’economia, mettendo insieme le élites, parte delle quali è stata in Piazza Tien An Mien, ma anche le grandi masse, ancora organizzate dal Partito.

Una via di mezzo confuciana che avrà grande successo. E, nel Partito, Zhao Ziyang perde quindi definitivamente la partita, che pure era interna alla rivolta di Tin An Mien. Finita la crisi, è proprio Deng Xiaoping che lascia nelle mani di Jiang anche l’ultimo potere, fortissimo, che detiene: la guida della Commissione Militare Centrale. Poco dopo, e niente è più simbolico di questo avvenimento, riapre la Borsa Titoli di Shangai, una riapertura che si attendeva dagli anni ’30. Poco dopo, apre anche la Borsa Titoli di Shenzhen. Si tratta in entrambe ogni titolo, compreso quello emesso dallo Stato, ma la logica profonda è una sola: acquisire capitali produttivi per generare uno sviluppo forte e autopropulso delle coste e delle industrie ad alto valore aggiunto, quelle che devono giocare nel campo libero del mercato-mondo, senza assumere protezioni e aiuti che andrebbero a discapito delle strutture produttive profonde dell’interno. Il viaggio di Deng ai confini del Sud, nel 1992, ha una traccia chiara, malgrado ci sia sempre stato, nel direttivo del Pcc, qualche dubbio sulle “zone economiche libere”: occorre aumentare, nello spazio di tempo che distanza gli anni ’90 dall’inizio del Terzo Millennio, il Pil. Ecco il punto. Dal 6% al 10%, rapidamente. E senza questa valutazione “quantitativa”, per dirla con il vecchio gergo comunista, non vi sarà una trasformazione “qualitativa” della società cinese.

Tutto deve essere fatto presto, bene ma presto, è questa la cifra degli anni, per certi aspetti straordinari, di Deng Xiaoping. Qui, nel Partito, e in poco tempo, arrivano le elaborazioni del “socialismo con caratteristiche cinesi” e del “socialismo di mercato” che, anche oggi, hanno così tanta importanza nella linea di Xi Jinping. Ci saranno anche altre trasformazioni che ci porteranno, in non molti anni, all’attuale socialismo con caratteristiche cinesi come è propugnato da Xi Jinping, ma tutto quello che, sul piano giuridico, poteva essere fatto inizia ad operare proprio in quegli anni. Il processo di trasformazione dell’economia cinese è lungo, potente, complesso, ma non è mai, come spesso si narra in Occidente, un semplice meccanismo di mercato o un adattamento ingenuo del Partito o dello Stato alle regole assolute e occidentali della globalizzazione. La Cina, fin dagli anni ’90, vuole comandare la mondializzazione dei mercati, non esserne solo parte. E vuole comandare per essere, ora che la fine del secolo a cui pensava Deng da molto tempo passata, l’asse della globalizzazione e il centro delle nuove egemonie globali.



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