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Perché la Cina si merita Trump (detto dall’anti Trump Friedman)

cinesi, cina

Thomas L. Friedman, editorialista del New York Times e del Project Syndacate, a cui sono abbonati un centinaio di quotidiani nel mondo, ha pubblicato il 23 maggio un’analisi su perché Pechino si merita Donald Trump.

Friedman – noto per le sue inchieste e per i suoi commenti al vetriolo contro la Casa Bianca di questi anni – è durissimo oppositore di The Donald. La sua analisi sulle ragioni per cui alla Cina si addice l’attuale presidenza americana (con il corredo di dazi, divieti e minacce) dovrebbe essere letta da quei politici italiani che si inchinano come mandarini di seconda classe, se non come eunuchi, a Xi Jinping ed alla sua Corte, sperando di ottenerne vantaggi e ricevendone, invece, solo sberle e sberleffi.

Si tratta di fatti che gli italiani che si occupano da anni di scambi e commercio conoscono a fondo, e che hanno prassi di lavoro con i cinesi, da decenni: sono sbigottiti dal dilettantismo con cui almeno parte del governo italiano affronta quella che è una nuova guerra fredda, come sottolineato su Formiche.net del 23 maggio.

IL PRIMO SCAMBIO COMMERCIALE AI TEMPI DI NIXON

Ricapitoliamo. La Cina si è aperta agli scambi ed ai commerci negli anni Settanta dopo circa sei secoli di chiusura ermetica. Lo fece su iniziativa di Richard Nixon e di Henry Kissinger nel 1972 – l’evento è stato oggetto di una divertente opera lirica, “Nixon in China” di John Adams che debuttò nel 1987 alla Houston Grand Opera e che si è vista anche in Italia al Teatro Filarmonico di Verona nel 1987. Allora Cina e Usa conclusero il primo accordo commerciale; riguardava l’export principalmente di abbigliamento e giocattoli cinesi alla volta degli Stati Uniti e di macchine utensili americane verso quello che fu il Celeste Impero. Solo negli anni Ottanta e Novanta, accordi simili sono stati conclusi con l’Europa, utilizzando, per gli Stati dell’Unione Europea (Ue), il canale comunitario come previsto, d’altronde, dal Trattato di Roma.

GLI ANNI NOVANTA

Negli anni Novanta, iniziò l’attività di imprese italiane in Cina, ad esempio direzione di lavori per infrastrutture e reti di pizzerie. A poco a poco, Pechino cominciò a giocare d’astuzia. Da un lato, premeva di essere ammessa all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), con lo status di Paese in via di sviluppo, quindi con deroghe al principio della reciprocità – cardine dell’Omc – e con preferenze tariffarie unilaterali per l’accesso dei propri manufatti e semi-manufatti nei mercati dei Paesi avanzati. Da un altro, promulgava leggi nazionali che imponevano agli investitori stranieri d’effettuare joint ventures con imprese cinesi, o di Stato o comunque scelte dal Partito.

NEGLI ANNI DUEMILA

Il senatore Adolfo Urso che allora era vice ministro con delega al commercio con l’estero, ricorda vividamente che nel 2001 l’ammissione della Cina all’Omc venne condizionata all’impegno del Paese di diventare “un’economia di mercato” ed in parallelo con il proprio sviluppo, di rinunciare al trattamento preferenziale che si accordava, e si accorda, ai Paesi del terzo mondo. Pechino – ben lo sanno coloro che trattano con la Cina da decenni – non ha la prassi di rispettare i patti, specialmente se conclusi con stirpi “inferiori”, come sono considerati gli occidentali.

I RISCHI ATTUALI

Con poca ricerca e sviluppo autoctona ed autonoma, ma con molta innovazione adattiva (ossia carpendo i brevetti altrui ed adattandoli alle condizioni cinesi), il Paese (pur piagato da tormenti politici ed economici interni) è diventato una potenza industriale, non ha un’economia di mercato ed invade il resto del mondo con prodotti in cui l’originale tecnologia occidentale è adatta anche allo spionaggio.

Ora i cinesi potrebbero far loro male.

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