Nel segreto delle urne gli italiani si sono riconciliati con la loro storia nazionale. Il crollo dei 5 stelle – caso più unico che raro in una lunga tradizione politica – ne sono la dimostrazione.
LE RAGIONI DELLA SCONFITTA
Via le fumose proposte programmatiche venate di giustizialismo. Al macero le teorie dell’”uno vale uno”. Come la furbesca torsione delle regole democratiche, volte solo a concentrare fette enormi di potere nelle mani di un’azienda, i cui meccanismi decisionali erano affidati al lato oscuro della rete. E poi il giacobinismo: quelle accuse gratuite lanciate contro chiunque avesse avuto un ruolo nella società italiana, che non fosse stato quello di steward al San Paolo di Napoli. Esemplare la decimazione contro le cosiddette “pensioni d’oro”. Non il loro ricalcolo su basi contributive, né un contributo di solidarietà – termine che non ricorre nelle norme – sull’esempio dei precedenti legislativi, tollerati come una tantum dalla Corte costituzionale. Ma un taglio secco destinato a recidere ogni legame tra l’ammontare della rendita percepita e l’entità dei contributi versati, durante l’intera vita lavorativa.
Senza contare poi il contraddirsi degli atteggiamenti. Prima la voglia di impeachment nei confronti di Sergio Mattarella, quindi la ricerca di un rifugio sicuro all’ombra del Colle più alto della Capitale. E che dire dei rapporti con l’Europa? La sfida lanciata dal balcone di Palazzo Chigi – deficit al 2,4 per cento e definitiva sconfitta della povertà – ed il successivo ripensamento: i vincoli di bilancio vanno rispettati. Nel mezzo di questo marasma, il blocco della Tav, la sconfitta su Tap ed Ilva. Con il susseguirsi di gaffe da parte dei suoi ministri, cui sarebbe stato bene imporre l’obbligo del silenzio. Mentre la Capitale, guidata da Virginia Raggi, assumeva sempre più il volto della suburra. Un movimento che, in Parlamento, ha ancora una forza pari al 32 per cento del corpo elettorale, aveva l’obbligo di garantire una transizione ordinata (se mai doveva essere) senza movimenti tellurici. Ed inutili cattiverie. Queste le ragioni, quindi, di una sconfitta così cocente. Milioni di voti persi: sia sul fronte degli ortodossi, che su quelle dei più governativi.
LA VITTORIA DELLA LEGA
Vince la Lega. Che ha saputo intercettare la rabbia degli italiani. Ed alla quale gli elettori hanno chiesto di mettere fine ad una politica inconcludente. Ha prevalso, soprattutto, il voto utile: per arrestare una deriva pericolosa. La premia un comportamento opportunistico. Lo diciamo senza alcuna intenzione denigratoria. Matteo Salvini si è concentrato sulle maggiori preoccupazioni – i flussi di immigrazione e la sicurezza – che affliggono non solo gli italiani. Ma la maggior parte dei Paesi europei: almeno stando ai sondaggi dell’Eurobarometro. Per il resto ha lasciato fare, salvo rivendicare, con puntiglio, i temi della sua agenda politica. A partire da quella flat tax, che è ancora tutta da definire. Per poi far emergere le altre dissonanze: dai temi dell’autonomia, alle grandi infrastrutture, dall’impegno per la crescita, alla difesa del lavoro, contro le semplici politiche di redistribuzione del reddito e via dicendo. E gli italiani gli hanno creduto.
LA SFIDA DI SALVINI
Ma si tratta di cambiali che, alla scadenza, vanno onorate. Ora la Lega dovrà dimostrare ciò che realmente è in grado di fare: in una situazione economica e finanziaria che più complicata non si può. E dalla quale si può uscire solo guardando oltre i confini nazionali. Gli elettori hanno rifiutato la sindrome del brutto anatroccolo. Quell’atteggiamento cioè che, da tempo immemorabile, ha sempre caratterizzato la posizione nazionale nei confronti dell’Europa. Pura schizofrenia. Da un lato la richiesta, quasi supplichevole, di deroghe dalle regole comuni, nel nome di una flessibilità pelosa. Dall’altro l’obbedire ad un comando – i compiti a casa – dagli esiti distruttivi. Problemi che rimangono sullo sfondo. E che Matteo Salvini non può pensare di risolvere, indossando la pelle del leone. E presentarsi in quel di Bruxelles, limitandosi a far valere la forza appena conquistata.
DISCUTERE CON L’EUROPA
Con l’Europa bisogna discutere. Dimostrare che l’Italia quei “compiti a casa” li ha svolti, andando anche oltre il dovuto. Che gli italiani non solo non hanno rifiutato l’amara medicina. Ma l’hanno subita con pazienza e rassegnazione, anche quando tutto dimostrava la dannosità degli effetti collaterali. Per fortuna l’idea un po’ balzana della fuoriuscita dall’euro ha fatto la fine che meritava. Abbandonata per far emergere un giudizio più articolato sui limiti della cosiddetta teoria del “vincolo esterno”: tanta cara agli illuministi di casa nostra. L’idea cioè che solo il condizionamento estero sarebbe stato capace di imporre quelle riforme che la classe politica era incapace di realizzare. Un rifiuto che ha incontrato il favore dell’elettorato. Ma questo è solo il primo passo.
I TRATTATI NON FUNZIONANO
Si tratterà ora di prendere di petto le questioni vere. L’esistenza di Trattati, a partire dal fiscal compact, che hanno subito una forte obsolescenza. Non funzionano più nella nuova realtà internazionale, dopo i grandi cambiamenti epocali imposti dalla più “grave crisi del secolo”. Parola di Alan Greenspan, l’ex Governatore della Fed, che ne porta in parte la responsabilità. In ciò supportati dalle decisioni già assunte dal Parlamento europeo, che hanno rifiutato di inserirli, in modo definitivo, nell’ordinamento europeo. Su quelle contraddizioni bisogna avere la forza per intervenire. Non battendo i pugni sul tavolo, come pensava Matteo Renzi, ma dimostrando, con la necessaria autorevolezza, i limiti generali di quelle regole. La sottovalutazione implicita degli squilibri macroeconomici che la loro meccanica applicazione determina ed amplifica. E che l’Italia sta pagando sulla propria pelle: in termini di mancato sviluppo, di forte crescita della disoccupazione, di declassamento del suo ceto produttivo. Naturalmente non sarà una battaglia facile. Ma proprio per questo bisogna prepararsi fin da subito. Per far capire ai nostri partner cosa significa, veramente, difendere i grandi interessi nazionali nella prospettiva più generale di un’Europa – Mario Draghi insegna – che richiede politiche non convenzionali.