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La guerra fredda tra Trump e la Fed. Nel nome dei tassi

Per essere una guerra lo è. Fredda, ma pur sempre tale. Ormai non c’è più alcun dubbio sul fatto che Jerome Powell, il numero uno della Federal Reserve scelto tra l’altro dallo stesso Donald Trump la scorsa primavera, stia mettendo a dura prova la pazienza del presidente americano. Gli ultimi mesi hanno visto il capo della Casa Bianca mettersi sempre di più sulla rotta di collisione con la Fed, la più importante istituzione finanziaria del mondo visto che dalle sue decisioni di politica monetaria dipendono gli equilibri delle principali Borse mondiali. Per l’amministrazione Trump si certifica così l’apertura di un fronte interno, dopo quello estero, sempre dal sapore finanziario, che ha visto il presidente americano intentare causa contro Deutsche Bank (qui l’articolo con tutti i dettagli), la prima banca tedesca Che cosa sta succedendo?

NEL NOME DEI TASSI

L’ultima scaramuccia sembra per la verità più un ammutinamento. La Casa Bianca, cui spetta la nomina dello stesso governatore, da tempo chiede alla Fed un taglio dei tassi sul costo del denaro al fine di rendere più agevole e meno impegnativo per le imprese chiedere un prestito alle banche. Appelli finora caduti nel vuoto. Proprio ieri il direttivo Fed presieduto da Powell ha platealmente snobbato l’appello di Trump che il giorno prima aveva invitato la Fed a tagliare il costo del denaro di ben l’1% e a reintrodurrre, anche, il Quantitative easing. Risultato? La Fed non solo non ha preso in considerazione l’ipotesi di iniezioni di liquidità nell’economia reale, a mezzo Qe, ma ha lasciato i tassi invariati nel range compreso tra il 2,25% e il 2,5%, con Powell che proferito una frase che ha letteralmente freddato i mercati, Wall Street inclusa.

POLLICE VERSO PER POWELL

Tutto sommato abbastanza candidamente, il numero uno della Fed ha spiegato il motivo che l’ha spinto ancora una volta a infischiarsene delle richieste di Trump. Secondo Powell è colpa delle pressioni sull’inflazione (il costo della vita) se un taglio dei tassi al momento non è stato possibile. Il punto è che l’inflazione negli Stati Uniti è all’1,6%, valore sotto le stime della Fed ma non ancora così bassi da mettere in allarme la Federal reserve, spingendola a un allentamento della politica monetaria. Per Powell dunque non è impellente al momento un ritorno a una una politica monetaria espansiva.

SEI MESI DI ATTRITI

La furia di Trump contro la Fed e i suoi vertici ha ormai una lunga storia. Già lo scorso 3 aprile il magnate americano divenuto presidente, aveva chiesto a Powell un taglio dei tassi. Ma già allora i rapporti erano complicati con Trump che in più occasioni aveva preso di mira la Banca centrale americana per aver gradualmente alzato l’anno scorso i tassi di interesse, sostenendo che questo e non altro avrebbe danneggiato la corsa dell’economia nell’era Trump. La Casa Bianca aveva cominciato ad aprire pesantemente il fuoco contro la banca centrale a dicembre 2018, quanto in un Tweet al veleno Trump riversò su Powell tutto il suo disappunto. “L’unico problema della nostra economia è la Fed. Non sentono il mercato, non capiscono le guerre commerciali necessarie o il dollaro forte, né gli shutdown dei democratici per i confini. La Fed è come un potente golfista che non può mandare in buca perché non ha tocco, non riesce a puttare”.

I MERCATI DICONO TRUMP

Il capo della Casa Bianca può comunque contare sul sostegno dei mercati, che sembrano non appoggiare la decisione della Fed di mantenere invariati i tassi. A Wall Street  con il Dow Jones che ha chiuso la sessione cedendo più di 160 punti, a 26.430,14 punti, il Nasdaq sceso dello 0,6% a 8.049,64 punti  mentre lo S&P 500 che ha riportato la sessione peggiore dallo scorso 22 marzo, scendendo dello 0,8% a 2.923,73 punti.

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