Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Cari pentastellati non abbiate paura dell’export militare. E sullo Yemen…

“Cari amici pentastellati, un nostro atteggiamento rinunciatario nel mercato mondiale dei materiali d’armamento non assicura la pace, perché si può combattere anche con i machete che negli anni Novanta fecero mezzo milione di morti nella regione africana dei Grandi Laghi”. È il messaggio che Roberto Paolo Ferrari, componente Lega della Commissione Difesa della Camera e primo firmatario della proposta di legge per l’istituzione di una Cabina di regia per l’industria della Difesa a Palazzo Chigi, manda (attraverso formiche.net) al Movimento 5 stelle. E non in un giorno qualsiasi. Oggi a Palazzo Madama il senatore grillino Gianluca Ferrara ha chiesto un’interrogazione per sospendere (cosa per la verità già avvenuta) la vendita di armi a Paesi come l’Arabia Saudita. E la risposta degli alleati di governo è contenuta nella proposta (già da tempo auspicata) di creare un supporto strutturato all’export della Difesa. Un meccanismo assente in Italia per ora e che penalizza non poco il nostro Paese rispetto ai competitor stranieri come gran Bretagna, Francia e Usa (solo per citarne alcuni). “La nostra proposta non allenta in alcun modo la severa disciplina che impedisce all’Italia di vendere armi a Stati che intendano servirsene in modo inappropriato – ci spiega Ferrari – il Movimento 5 stelle questa cosa l’aveva compresa. Poi ha fatto un mezzo passo indietro. Noi speriamo che ci ripensino”.

Oggi l’industria della difesa ha un determinato valore in Italia, tuttavia la sua conservazione non è né automatica né scontata. Secondo lei, come è possibile restare competitivi con i bassi investimenti nella Difesa messi a disposizione da questo governo? 

L’industria aerospaziale e della Difesa produce reddito e genera occupazione qualificata da cui deriva anche gettito fiscale. In qualche modo, è un tipo di spesa pubblica che si autofinanzia e che per sua natura aiuta il sistema-Paese a crescere, comportando un importante sforzo di ricerca. Certamente, la riduzione degli investimenti nazionali causa dei danni, ma ancor di più ne procura l’incertezza che i tagli imprevisti determinano in tutto il settore. Occorre eliminare alcune incognite che pesano come macigni sull’avvenire delle nostre imprese del comparto, le quali fanno anche notare come la committenza nazionale, il procurement della nostra Difesa, sia fondamentale anche per esportare. Con i loro acquisti, infatti, le Forze armate “certificano” la qualità dei prodotti che sforna la nostra industria. Esportare di più può compensare nel breve termine le carenze della domanda pubblica interna, ma non sostituirla del tutto.

Oltre alle difficolta di budget dobbiamo riscontrare anche un impegno ridotto del sistema-Paese nel promuovere la Difesa italiana. Ad esempio, la sconfitta delle FREMM in Australia non è legata al prodotto in sé, ma soprattutto alle strategie messe in campo dai Paesi che promuovevano i propri sistemi d’arma, in questo caso gli inglesi. Come far tesoro di questo insuccesso?

Esistono circostanze in cui la politica può far molto e la proposta relativa alla cabina di regia per l’export dei materiali industriali della Difesa serve proprio a ridurre il divario che ci separa da alcuni nostri concorrenti. Il governo francese, ad esempio, si occupa moltissimo di sostenere l’export delle proprie imprese attive nel comparto armamenti, senza particolari complessi, anche quando al potere si trova come adesso un Presidente “progressista”. Alle nostre imprese del settore serve un sostegno più attivo della politica e da parte dell’amministrazione. Tanto nello scouting, cioè nella ricognizione dei mercati sui quali emergano delle opportunità, quanto nell’appoggio durante le procedure selettive e concorsuali che determinano chi si aggiudicherà le commesse. Forse in Australia ha pesato l’influenza che il Regno Unito riesce ancora ad esercitare sugli Stati parte del suo Commonwealth, un fattore non trascurabile. Resta però che le Fremm sono state battute da una classe di navi che esistevano solo sulla carta e nessuno ha ancora mai visto, mentre le nostre fregate navigano. È probabile che una presenza più costante e visibile delle nostre istituzioni a fianco di Fincantieri avrebbe potuto garantirci qualche chance in più.

La cabina di regia, che la proposta di legge di cui è primo firmatario vorrebbe istruire, a quale sistema estero si ispira? A quello francese?

Non del tutto, perché in realtà l’agenzia cui penso sarebbe interministeriale, mentre la Francia si serve di una potentissima Direzione generale che però opera all’interno della Difesa. Noi immaginiamo invece un’agenzia piazzata all’interno della Presidenza del Consiglio, che abbia organi tecnico-operativi alle proprie dipendenze attivi h24 su tutta la settimana e possieda anche una estesa rete di contatti, al servizio delle imprese esportatrici del nostro Paese.

Che tipo di ruolo svolgerà il Nucleo tecnico-operativo che volete istituire? Nel nostro Paese come vedrebbe l’attivazione di meccanismi come il G2G nel campo della Difesa? 

Proprio al Nucleo-Tecnico Operativo verrebbero demandate le funzioni di scouting e supporto alle nostre imprese che a nostro avviso sono essenziali per accrescere la competitività delle imprese italiane che producono materiali d’armamento. Il G2G è ovviamente parte di tutto questo, perché alla fine, alla testa della cabina di regia deve esserci un’autorità politica delegata d’alto livello.

Secondo lei, visto che la Difesa è un terreno di scontro, come verrà accolta tale proposta dall’altra parte della maggioranza?

L’attuale fase politica coincide con la fine di una campagna elettorale molto accesa, in cui è evidente il tentativo del nostro partner di maggioranza di marcare in qualche modo la propria diversità. Può non piacere – e noi non piace – ma è spiegabile. Nel campo della Difesa, ciò significa anche giocare la carta del pacifismo ad ogni costo, di cui il rifiuto della capacità di produrre ed esportare armi è un tratto saliente. Dovremmo tuttavia sempre ricordare che non sono mai le armi a fare la guerra, ma sono gli esseri umani che le usano. Le armi non sono né buone né cattive, sono strumenti. Lo è chi le impiega. In sé, vendere sistemi d’arma più o meno complessi a Paesi che desiderano difendersi in modo efficace non è immorale. La nostra proposta non allenta in alcun modo la severa disciplina che impedisce all’Italia di vendere armi a Stati che intendano servirsene in modo inappropriato. Il Movimento 5 stelle questa cosa l’aveva compresa. Poi ha fatto un mezzo passo indietro. Noi speriamo che ci ripensino, i nostri amici pentastellati. Per quanto ci riguarda, cercheremo di far capire loro che un nostro atteggiamento rinunciatario nel mercato mondiale dei materiali d’armamento non assicura la pace, perché si può combattere anche con i machete, che negli anni Novanta fecero mezzo milione di morti nella regione africana dei Grandi Laghi. Fa solo perdere posti di lavoro e occasioni di crescita tecnologica al nostro Paese.

Se tutto quello che lei ha previsto venisse istituito, l’Italia si presenterebbe nei mercati esteri ad armi pari o avrebbe ancora bisogno di altri aggiustamenti normativi?

Facciamo un passo alla volta. Ridurrebbe il gap attuale e di molto. Ciò che servirebbe successivamente è un salto culturale, qualcosa che permetta una volta per tutte di rilegittimare moralmente gli investimenti nelle produzioni militari. Ci vorrà molto più tempo.

Cosa ne pensa dell’interrogazione di Gianluca Ferrara (M5s) sullo stop alla vendita di armi italiane all’Arabia saudita?

Che si tratta di una questione complessa, che investe le scelte fondamentali della politica estera italiana, con diramazioni che verrebbero avvertite in tutto il Medio Oriente e nel Nord Africa, Libia inclusa. L’umanitarismo deve certamente essere parte di un disegno politico sensibile ai valori, ma non può essere l’unico parametro di decisione, specialmente rispetto a un contesto tanto confuso come quello yemenita, in cui imperversa una guerra civile. In Yemen, la crisi umanitaria non è determinata dalle bombe, ma dagli embarghi che hanno comportato da tempo la chiusura dei porti alle derrate e a tutto ciò che serve al sostentamento della vita civile. È su questo fattore che si dovrebbe agire, con prudenza e ragionevolezza, evitando in particolare che qualsiasi passo possa essere interpretato come una scelta di allineamento.

×

Iscriviti alla newsletter