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Senza Conte, il governo gialloverde avrebbe fallito

Non è dato sapere se quel che si legge in questi giorni sui giornali sia vero, oppure faccia parte del gioco, alquanto pericoloso, che le due forze di governo stanno conducendo. Matteo Salvini avrebbe detto che Giuseppe Conte ha perso la sua fiducia, che non lo considera più super partes da quando sulla vicenda di Armando Siri ha preso sostanzialmente le parti, pur fra tanti distinguo, dei Cinque Stelle.

Capisco la delusione del leader leghista, ma la politica non si fa solo con i sentimenti e gli stati d’animo (che pur ne sono parte importante). Con la ragione credo che anche Salvini non possa non convenire sul fatto che, senza Conte, semplicemente l’esperimento di governo sarebbe fallito. Il colpo di genio, credo più fortuito che ponderato, dei due azionisti di maggioranza è stato proprio quello di tirare fuori dal cilindro, a un certo punto, un anno fa, un presidente in grado di interpretare il ruolo difficilissimo che gli era stato affidato. Si trattava infatti di declinarlo su basi nuove e atipiche, e per molti versi tutte da inventare. Come si poteva immaginare che riuscisse nell’impresa un non politico, e fra l’altro senza nemmeno esperienza, messo alla guida di un governo totus politicus come non se ne vedevano da tempo? (i cui pochi tecnici presenti sono stati, fra l’altro, subito depotenziati se non isolati).

Un governo fondato, fra l’altro, sulla formula originale del “contratto”. Eppure, il miracolo è avvenuto. Conte è riuscito non solo a muoversi con destrezza fra le diverse opzioni di due forze culturalmente e politicamente agli antipodi, ma, cosa ancora più difficile, e che lo rende a mio avviso quasi insostituibile, ha saputo mediare in modo straordinario fra lo “stato profondo” e i nuovi arrivati (più o meno “barbari” come sono necessariamente sempre le nuove classi dirigenti).

Ora, la mediazione, necessaria per il superiore interesse dello Stato, poteva avvenire in due modi: o rinnegando le ragioni originarie, e oserei dire storiche, del “governo del cambiamento”, in questo punto alterando gli equilibri politici (e qualcuno lo aveva sperato!); oppure non transigendo sui principi di cambiamento e tenendo testa alle forze avverse, ma usando le armi della negoziazione e della politica. Conte ha seguito la seconda strada e lo ha fatto in maniera egregia: dalla sua rivendicazione di “essere populista” fino al discorso dell’altro giorno a Firenze, duro ma argomentato e civile, sull’attuale governo dell’ Unione europea.

Ora, è evidente che per il presidente le cose si siano complicate da quando, circa un mese fa, il Movimento 5 Stelle ha deciso di essere più assertivo nei suoi rapporti con la Lega. Ma d’altronde, Salvini stesso può trovare oggi in Conte il miglior mediatore fra le sue esigenze e quelle nuove di Di Maio. L’alternativa è la crisi di governo.

Ma, a parte i conti numerici da fare solo dopo le elezioni, e non in base ai sondaggi, credo che gli italiani non perdonerebbero la fine di quel lungo, e da loro gradito stando ai sondaggi, lavorio di ricambio, di idee e uomini, comunque avviato nell’ultimo anno. In cosa altro se non in questo elemento prosaico consiste la democrazia?


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