LA FINE DI UNA PARVENZA DI ORDINE INTERNAZIONALE
Come ha scritto su Twitter Matteo Bressan, la fine dell’accordo sul nucleare iraniano “segna la fine di una parvenza di ordine internazionale”. L’analista e docente (direttore delll’Osservatorio Mediterraneo della Lumsa) si riferisce all’annuncio dell’Iran di ritirarsi parzialmente dall’accordo, come decisione di rappresaglia contro l’aggressività degli Stati Uniti – che esattamente un anno fa erano usciti dall’intesa in forma unilaterale, rialzando contro Teheran tutto il set di sanzioni precedentemente sospese – e come pressing verso le altre controparti firmatarie del deal, che non sembrano in grado di dare garanzie di continuità.
Non siamo ancora effettivamente davanti alla fine dell’intesa, ma ci sono tutti i presupposti. Vediamo.
L’accordo, che in termini tecnici si chiama Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa, era stato siglato nel 2015 da un sistema multilaterale noto come “5+1” – composto dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite, Francia, Regno Unito, Russia, Cina, Stati Uniti, più la Germania – e per questo era considerato non solo per il suo valore specifico (il congelamento del programma nucleare iraniano), ma soprattutto come un elemento di stabilizzazione e sicurezza in un intero quadrante geografico delicatissimo, il Medio Oriente.
Il ritorno ad atmosfere guerresche, fatte di spostamenti militari per deterrenza (ieri i comandi del Pentagono hanno dato molto risalto all’arrivo in Qatar di quattro bombardieri strategici B-52, schierati per spostamenti di routine cui però è stata data l’etichetta anti-Iran, così come è stato fatto per l’anticipo della rotta mediorientale della portaerei “USS Lincoln”, che ieri ha doppiato Suez). Azioni cui Teheran ha risposto annunciando non solo la sospensione di pratiche intraprese all’interno del Jcpoa, ma imponendo un ultimatum di 60 giorni alle controparti ancora attive, e minacciando di riprendere l’arricchimento di uranio sospeso dal 2015.
LA NOTA DELL’EUROPA
“L’Iran deve continuare a implementare pienamente i suoi impegni” e “astenersi da qualsiasi passo di escalation”, hanno scritto ieri in una dichiarazione congiunta l’Alto rappresentante per la politica estera, Federica Mogherini, e i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Regno Unito, sottolineando la loro “grande preoccupazione” per le dichiarazioni fatte da Teheran sulla volontà di non rispettare alcuni dei punti previsti.
“Rigettiamo qualsiasi ultimatum [chiediamo a Teheran di] continuare ad aderire ai formati e ai meccanismi previsti dall’accordo”, dicono gli europei. Ma la situazione è complessa. Le dinamiche americane – pensate in concertazione con gli alleati mediorientali, Israele e Golfo, lasciando più indietro i partner europei – tendono a portare l’Iran verso un passo falso. Verso una mossa che possa giustificare l’aumento dell’aggressività statunitense che sostanzialmente si lega al non allineamento di Teheran sulle policy che Washington ha in mente per la regione (con la diffusione di un’agenda che, attraverso l’influenza all’interno di altri stati, punta a creare una qualche egemonia iraniana nel quadrante; egemonia che è giocata pure sull’anti-americanismo e che Washington non può tollerare).
Nella nota di Bruxelles, alla preoccupazione per le mosse iraniane si abbinano critiche per la reintroduzione delle sanzioni statunitensi: l’Ue chiede ai “paesi non parte del JCPOA”, ossia – dall’8 maggio 2018 – gli Stati Uniti, di non interferire sull’accordo. Le sanzioni sono un elemento che mette in difficoltà l’Europa impegnata da un anno a mantenere in piedi l’intesa cercando la sponda di Russia e Cina. Se l’Iran dovesse riavviare il programma e non tener fede all’accordo, l’Ue ne uscirebbe politicamente sconfitta: l’amministrazione Trump – una delle più severe di sempre con Teheran – potrebbe trovare giustificazione alla sua linea dura, ed esercitare qualche forma di rivalsa sugli europei, anche se potrebbe essere stata proprio quella linea dura a indurre l’Iran al passo falso.
TEHERAN HA POCHE VIE DI USCITA
Il governo di Teheran ha poche vie di uscita. La leadership teocratica, seppur mantenendo posizioni più distaccate, ha sostanzialmente seguito la linea di dialogo e moderazione dettata dal presidente Hassan Rouhani che quattro anni fa ha voluto fortemente i colloqui – il suo ministro degli Esteri, Javad Zarif, riconfermato anche in questo secondo mandato, è stato il volto dei negoziati insieme al collega americano John Kerry, capo della diplomazia con l’amministrazione Obama. La strada è stretta, l’investimento sul Jcpoa è stato praticamente totale, anche perché avrebbe riaperto l’economia iraniana, sbloccando una serie di asset e lanciando il paese verso una crescita per anni tarpata dalle sanzioni.
L’uscita trumpiana dall’accordo ha rimesso tutto in discussione: gli Stati Uniti hanno riavviato l’intera panoplia di sanzioni, anche quelle secondarie dal valore extraterritoriale, che praticamente impediscono a paesi terzi di lavorare con l’Iran perché rischierebbero di subire contromisure nei business con gli Stati Uniti (un’economia ben più grande, per questo molte aziende europee hanno scelto di abbandonare gli affari iraniani pur di non vedere intaccati quelli americani).
L’Iran cerca di giocare le poche carte che ha in mano usando spazi legali concessi dagli articoli 26 e 36 del Jcpoa: il primo impediva il re-inserimento delle sanzioni da parte degli Stati Uniti se Teheran avesse rispettato i termini dell’intesa, cosa certificata finora dall’Agenzia per il nucleare delle Nazioni Unite; il secondo permetteva la sospensione dell’accordo in caso di dispute interne ai cofirmatari, e dispute ce ne sono, visto che sia gli europei, che Cina e Russia, non hanno accettato l’uscita americana dal deal e la situazione non s’è stabilizzata tra i firmatari restati.
Tuttavia Teheran non vuole ritirarsi dall’accordo. La strategia della Repubblica islamica è quella di cercare di spingere le controparti a risolvere la situazione riguardante l’export petrolifero (che gli Stati Uniti vorrebbero portare a zero per colpire a fondo il principale asset economico iraniano) e la creazione di un meccanismo di garanzia funzionale per l’accesso al sistema bancario internazionale (attualmente bloccato da Washington, che impedisce le negoziazioni in dollari all’Iran, e dunque chiude l’accesso al sistema internazionale dei pagamenti).
L’ULTIMATUM DELLA CASA BIANCA
Su tutto pesa anche un ultimatum che potrebbe mettere la pietra tombale al Jcpoa. Il 4 maggio gli Stati Uniti hanno ridotto alla metà, 90 giorni, le esenzioni da sanzioni sulla cooperazione nucleare civile con l’Iran. Era un meccanismo del tutto simile a quello già chiuso sull’export petrolifero (che manteneva fuori dalle sanzioni i flussi del greggio iraniano verso otto paesi, tra cui l’Italia). In questo caso permetteva a Teheran di procedere con la riconversione degli impianti di Arak, Fordow e Bushehr in forma civile.
Un lavoro che gli iraniani avrebbero potuto portare avanti con partner internazionali – Cina, Russia e Regno Unito – secondo quanto previsto dal Jcpoa. L’uscita americana dall’accordo ha rivisto anche questa linea. Annalisa Perteghella, Iran Desk dell’Ispi, spiega la situazione complessa: “Scadute le sanzioni, quei paesi saranno posti di fronte a una scelta: continuare a cooperare con Teheran, in ottemperanza al Jcpoa, incorrendo però nelle sanzioni statunitensi, oppure cessare la cooperazione nucleare civile con gli iraniani, violando però in questo modo essi stessi gli impegni presi con l’accordo”.
A questo punto, continua l’analista italiana, “Washington spingerebbe le rimanenti parti dell’accordo a violarlo, provocando in questo modo il definitivo fallimento dell’intesa”. Questa pressione imposta da Washington a Teheran, secondo Perteghella, è una strategia per “costringere l’Iran a tornare al tavolo delle trattative e negoziare un nuovo accordo, più rappresentativo degli interessi statunitensi”.