Ieri il vice capo della Coalizione internazionale che combatte lo Stato Islamico in Siria e Iraq, l’Operazione Inherent Resolve (OIR) cui partecipano dozzine di paesi, ha detto che non ci sono segnali che possano far pensare a un aumento della minaccia per gli uomini della coalizione o per gli occidentali da parte della milizie sciite che l’Iran ha mobilitato nei due paesi. Poche ore dopo, il CentCom, che è il comando strategico regionale statunitense che si occupa di quell’area e che è l’azionista di maggioranza di quella coalizione, ha detto l’opposto, insistendo che le truppe in Siria e Iraq sono ad alto rischio perché l’Iran ha dato mandato ai suoi delegati locali di colpire.
IL CONTESTO
Quello che dice il Pentagono contro le parole del generale Christopher Ghika, va contestualizzato, facendo notare da subito che non è per niente normale questa dialettica. Ghika è inglese, alleato americano, e normalmente su certe faccende c’è oltre che un allineamento perfetto, anche un’educazione imposta dalla diplomazia militare secondo la quale non si alza mai il livello della discussione. Però, la smentita di CentCom –specifica, non generica – arriva in un momento molto delicato: gli Stati Uniti hanno rafforzato negli ultimi dieci giorni la presenza in Medio Oriente con lo scopo di creare deterrenza contro l’Iran. Un report di intelligence arrivato il 3 maggio sui tavoli dello Studio Ovale sosteneva che gli iraniani avevano cambiato profilo, e in rappresaglia davanti alle pressioni americane (quelle legate all’uscita dall’accordo sul nucleare e successiva reintroduzione del regime sanzionatorio strozzante) stavano progettando di colpire gli Usa o gli alleati in Medio Oriente.
LA SITUAZIONE IN IRAQ
Le parole dell’ufficiale – che smentiscono pubblicamente almeno una parte di queste informazioni di intelligence statunitensi con un fuori prassi nel fuori prassi: Usa e Regno Unito sono i pilastri della compatta alleanza di sicurezza che prende il nome di Five Eyes – diventano ancora più interessanti perché il generale è un operativo che dal campo coordina i luoghi di maggiore contatto tra forze occidentali e proxy iraniani. Questo richiede un’altra contestualizzazione. Teheran ha diffuso le milizie collegate al mondo ideologizzato della teocrazia sciita in diverse zone del Medio Oriente, le ha finanziate per farle crescere e rafforzare, ha colto l’occasione dell’avanzata del Califfato per una mobilitazione di massa che avrebbe elevato quei gruppi (spostati dal Libano, da Iraq e Siria stessi, dall’Afghanistan) al rango di forze regolari; le milizie schierate in Iraq contro l’Is si fanno chiamare al-Hashd ash-Shaʿabi, ossia forze di mobilitazione popolare, un nome molto politico. Le stesse hanno anche permesso all’Iran di costruirsi un debito di sangue – la gran parte dei morti ammazzati negli scontri con i baghdadisti sono stati proprio questi miliziani – da rivendicare in chiave di influenza politica.
GLI AVVERTIMENTI AMERICANI
Molti di quei gruppi sciiti erano gli stessi che a bordo delle tecniche attaccavano i soldati americani ai tempi dell’invasione dell’Iraq, quelli che piazzavano molti degli ordigni esplosivi che hanno ucciso soldati americani. Anche per questo repertorio noto, sulla base di quelle informazioni di intelligence avute da Washington due venerdì fa (forse veicolate da Israele), la sicurezza attorno al fortino dell’ambasciata di Baghdad è stata in questi giorni ulteriormente estremizzata, con warning di allerta per possibili attentati (lo stesso è stato fatto nella nuova sede dell’ambasciata americana di Gerusalemme). E il dipartimento di Stato ha dato ordine a tutti i funzionari governativi impiegati nei servizi non urgenti di rientrare negli Stati Uniti. Anche CentCom ha fatto salire il livello di Defcon prevedendo nuovi attacchi contro il personale americano per opera di quegli attori esterni, che sono considerati anche il motivo per cui gli Stati Uniti (e i partner regionali come Arabia Saudita ed Emirati Arabi, o Israele, in costante guerra con una di quelle milizie: la libanese Hezbollah, la più forte di tutti proxy iraniani) stanno combattendo l’Iran accusando Teheran di giocare sporco sull’influenza regionale, usando attori discutibili accusati di terrorismo per egemonizzare la regione. Per capirci: qualche mese la protettissima ambasciata americana di Baghdad è stata sfiorata da un colpo di Rpg sparato proprio da una di quelle milizie sciite. Ma anche il governo iracheno rassicura che non sono aumentati i rischi adesso.
VENTI DI GUERRA
In una videoconferenza da Baghdad, il generale Ghika smentisce l’incremento di una minaccia già persistente. E’ una notizia, come il rimprovero di CentCom. Tutte e due da inquadrare in un genere di contesto d’ordine superiore: davanti all’aumento di aggressività nella postura americane in Medio Oriente degli Stati Uniti, gli alleati europei hanno risposto con freddezza. Ieri, per restare a Inghilterra, il ministro degli Esteri, Jeremy Hunt, ha detto di essere preoccupato che qualche incidente possa trasformarsi in un’occasione di fare una guerra, nonostante da Washington continuino ad arrivare rassicurazioni sul fatto che gli americani non cercano l’azione militare.
NEGLI USA
A questo punto val la pena inserire un altro contesto prima di andare avanti: il presidente Donald Trump è sostanzialmente un pacifista realista, convinto più che altro dalla questione economica, perché le guerre costano, ha detto più volte, e gli americani dovrebbero smetterla di spenderci soldi, è la sua linea, che potrebbero essere usati per tante altre cose; tipo il Muro o l’abbattimento delle tasse. Tuttavia altri elementi dell’amministrazione la vedono diversamente: il consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, per esempio, è uno che credeva che un attacco armato contro l’Iran potesse risolvere meglio di qualsiasi altra cosa i problemi con la Repubblica islamica, sia quelli legati al nucleare che quelli sull’influenza sovranista anti-americana nella regione.
FREDDEZZA UE
Due giorni fa, approfittando di una riunione ordinaria dei 28 ministri degli esteri dell’UE e dell’Alto rappresentante per la politica estera, Federica Mogherini, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha deviato dal suo viaggio in Russia facendo tappa a Bruxelles senza preavviso. Una fonte dall’Unione ci dice in forma discreta che il capo della diplomazia statunitense è stato accolto in un mix di “indifferenza e irritazione”, e la stessa Mogherini, prima di incontrarlo, ha dichiarato che “siamo qui oggi con un’agenda intensa, e vedremo se e come un incontro può essere organizzato”. I ministri di Gran Bretagna, Francia e Germania, i tre firmatari europei dell’accordo sul nucleare (Jcpoa) da cui Trump ha tirato fuori gli Stati Uniti un anno fa, non hanno voluto incontrare Pompeo e fare una foto con lui in un momento così delicato.
L’IDEA DI BRUXELLES
Segnale che la crisi prodotta dal ritiro dal Jcpoa con quest’onda lunga guerresca in Medio Oriente non si allinea affatto con le volontà dell’Europa, tanto che ieri gli spagnoli hanno ritirato una fregata che stava conducendo manovre attorno alla Penisola Arabica insieme alla portaerei “USS Lincoln”; Madrid temeva che un proprio mezzo militare potesse essere sul posto e finire impelagato in qualche scontro militare. Oggi lo stesso ha fatto la Bundeswehr tedesca, ritirando soldati che erano in Iraq per addestrare i locali. C’è una questione sicurezza, ma anche un messaggio simbolico di disallineamento. Bruxelles sta provando (senza troppa forza e convinzione, ndr) a tener viva l’intesa Jcpoa e l’impalcatura di sicurezza collegata. Concetto ribadito anche nella dichiarazione congiunta a margine della ministeriale di lunedì. Per l’Europa le milizie sciite sono comunque un problema da affrontare, ma l’Ue considera come base di lavoro l’esistenza dell’accordo, ossia del vettore con cui non perdere contatto completamente con l’Iran. Se l’accordo viene giù, nel paese le posizioni più intransigenti potrebbero ritrovare il consenso perso dalla gestione dei colloqui voluta dalla maggioranza moderata. E sono quelle posizioni radicali, ideologizzate e aggressive, a essere collegate ai partiti-milizia regionali.
(Foto: Flickr, State Department)