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L’Iraq si propone come mediatore tra Stati Uniti e Iran

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Il ministro degli Esteri iracheno, Mohammed al-Hakim, ha detto ieri che il suo paese si è offerto volontario per mediare sulla crisi tra Stati Uniti e Iran, innescata da informazioni di intelligence ricevute da Washington riguardo alla possibilità che gli interessi americani in Medio Oriente possano finire attaccati dagli iraniani (e/o dalle forze proxy collegate) come rappresaglia per alcune decisioni politiche molto dure prese dagli Usa nei confronti di Teheran – per esempio: gli Stati Uniti, dopo essersi ritirati dall’accordo nucleare del 2015, hanno imposto un regime sanzionatorio strettissimo sull’export petrolifero iraniano che rischia di far crollare il mercato che fa da asset principale al paese.

IRAQ, IRAN, USA

L’Iraq è un paese molto importante all’interno del delicato (dis)equilibrio che nelle scorse settimane ha portato gli Stati Uniti a muovere verso il Medio Oriente un rafforzamento militare per rispondere a quello che considerano un aumento della minaccia iraniana. Baghdad è un governo alleato americano da diversi anni, ma allo stesso tempo è un paese che (dal punto di vista politico, ideologico, sociale ed economico) rientra nella sfera di influenza di Teheran. Un esempio plastico della situazione: la guerra condotta contro lo Stato islamico, che aveva preso il controllo di una vasta area territoriale irachena dove si trovava la capitale culturale del Califfato, Mosul, è stata condotta da una campagna ibrida a guida americana di cui ne facevano parte sia l’esercito regolare iracheno sia un set di milizie sciite mosse su ordine dell’Iran.

LE MILIZIE IRACHENE E L’IRAN

Si tratta di realtà locali, partiti/milizia, finanziati e gestiti politicamente ed ideologicamente dalle componenti teocratiche della Repubblica islamica, per mano dei Guardiani della rivoluzione. Contro il Califfato hanno lavorato sotto l’ombrello politico dell’al-Hashd ash-Shaabi e hanno anche ricevuto coordinamento indiretto – tramite l’esercito iracheno – nel quadro delle operazioni statunitensi. Ma quel conglomerato armato che va sotto il nome di Forza di mobilitazione popolare è stato formato ad hoc da Baghdad (e Teheran) per rendere più potabile la necessità pragmatica di usare in combattimento gruppi estremisti sciiti come la Lega dei Giusti, la Badr Organization, la Kataib Hezbollah, che negli anni dell’occupazione irachena erano stati protagonisti di attacchi devastanti contro i soldati americani. Ora, davanti a quelle nuove informazioni di intelligence, sembra che possano essere queste stesse realtà paramilitari – o altre coma la libanese Hezbollah – a colpire di nuovo il personale (militare e civile) americano. Le informazioni di intelligence dicevano che nelle ultime settimane gli iraniani avevano passato a queste alcuni missili a corta gittata.

ZARIF A BAGHDAD

Quello che ieri ha detto al-Hakim diventa ancora più interessante perché il capo della diplomazia irachena ha parlato durante una conferenza congiunta con il suo omologo iraniano, Javad Zarif, in visita a Baghdad. Zarif incarna in giro per il mondo le posizioni pragmatico-moderate del governo Rouhani, ed è colui che ha lavorato con i funzionari occidentali per chiudere l’accordo sul nucleare quattro anni fa e si è battuto all’interno del suo paese per far passare la linea anti-ideologica che avrebbe portato per l’Iran la riapertura di potenzialità economiche precedentemente bloccate dalle sanzioni collegate alle velleità nucleari. Ora che l’amministrazione Trump ha ritirato gli Usa dall’accordo, mettendone a rischio l’intera architettura, le posizioni come quella di Zarif all’interno del paese soffrono davanti al ritorno dei falchi, che accusano gli Stati Uniti di essere inaffidabili (e di farlo per accontentare alleati regionali come Arabia Saudita e Israele) e i pragmatici iraniani di essersi fatti fregare, o peggio di essere collusi col Grande Satana (come i reazionari iraniani chiamano l’America).

IL REFERENDUM

Nei giorni scorsi, il presidente Hassan Rouhani – dopo essere stato rimproverato dalla Guida suprema Ali Khamenei dell’errore strategico fatto nell’affidarsi completamente all’accordo nucleare (è una posizione con cui la Guida cerca di recuperare terreno, sebbene anche la maggioranza della teocrazia era con Rouhani) – ha detto che la permanenza iraniana nell’intesa sul nucleare potrebbe essere decisa da un referendum popolare. Rouhani ne parlava già nel 2004, quando era un semplice negoziatore: Zarif, accusato anche lui da Khamenei di “numerose ambiguità e debolezze strutturali, ricordando che l’Iran non è mai venuto meno ai termini dell’accordo (come certificato dalla IAEA), ha esposto questa possibilità durante l’incontro a Baghdad. Il referendum potrebbe dare copertura alle future decisioni di Teheran, ma potrebbe essere anche una via difensiva della presidenza.

LA MEDIAZIONE…

Il ruolo di mediazione di Baghdad diventa molto importante in un momento in cui tutti gli attori in campo temono che azioni avventate possano far scivolare l’attuale crisi verso una deriva incontrollabile. E controllare i gruppi paramilitari filo-iraniani iracheni è fondamentale in questo. Secondo il premier iracheno il suo lavoro di contatto è abbinato a quello di Qatar, Oman, Russia, Giappone e Svizzera. Zarif nei giorni scorsi era a Tokyo, dove in queste ore è in visita Donald Trump: Washington non vuole innescare un “cambio di regime” in Iran, ha detto oggi Trump in conferenza stampa con Shinzo Abe, il premier giapponese che potrebbe andare a inizio giugno a Teheran in una visita coordinata con gli Usa (i giapponesi hanno smentito a Sputnik un loro ruolo nell’affare).

… E I PUNTI CALDI

Gli stessi Stati Uniti hanno cercato di aprire canali di comunicazione secondari con l’Iran, e nel fine settimana ci sarà un incontro a Riad dove il regno saudita ha voluto invitare i paesi membri della Lega Araba e del Consiglio di cooperazione del Golfo (parteciperà anche il Qatar, i cui funzionari, che partecipano regolarmente a queste riunioni, stavolta torneranno a Riad dopo il blocco diplomatico) per fare il punto sullo stato delle cose dopo che quattro navi davanti al porto emiratino di Fujairah sono state sabotate forse da forze proxy iraniane e alcuni droni kamikaze lanciate dai ribelli yemeniti Houthi (parzialmente collegati con l’Iran) hanno colpito due pipeline in Arabia Saudita. Parteciperanno gli emiratini, che hanno la linea più agguerrita contro l’Iran, ma anche Bahrein, Kuwait, Qatar e Oman, che sono paesi con volontà più dialoganti: Riad e Abu Dhabi “vogliono testare se esiste all’intero delle organizzazioni internazionali regionali un fronte anti-Iran sufficientemente compatto”, ci spiega una fonte dal Golfo, “ma non c’è”.

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