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La lotta di nervi tra Trump e la Cina. Pechino fa (quasi) finta di niente e va a Washington

IL MOOD ERA CHIARO DA UNA SETTIMANA

Da almeno una settimana i colloqui tra Stati Uniti e Cina per trovare una quadra sullo scontro commerciale sembravano prendere una brutta direzione. Erano arrivate ai giornali informazioni a proposito di un aumento del pressing americano cui però non corrispondeva un feedback positivo cinese. I delegati statunitensi intendevano chiudere i colloqui nell’arco di due settimane, ossia entro domenica. O forse prima: la Casa Bianca voleva presto un accordo, oppure avrebbe mollato tutto.

E infatti, ieri il rappresentante al Commercio statunitense, Robert Lighthizer, uno dei duri e puri con la Cina nell’amministrazione Trump, ha fatto sapere pubblicamente che se non ci saranno evoluzioni positive in questi prossimi giorni, venerdì 10 maggio, a mezzanotte (ora di Washington), gli Stati Uniti alzeranno dal 10 per cento attuale al 25 le tariffe commerciali su altri 200 miliardi di dollari di prodotti Made in PRC (che è la sigla che indica la People’s Republic of China, nome formale della Cina che però Pechino usa da tempo in modo strategico per camuffare la provenienza e schivare la considerazione generalizzante e negativa secondo cui il prodotto cinese corrisponde a bassa qualità e problematiche di altro genere; stesso gioco fatto dalle ditte occidentali per distrarre sulla catena di produzione).

Lighthizer ha parlato in conferenza stampa congiunta col segretario al Tesoro, Steve Mnuchin che fa parte invece delle visioni più aperte all’interno dell’amministrazione statunitense. Mnuchin ha aggiunto che in queste ultime settimane di stremanti trattative con la Cina c’è stata una sorta di ritirata da parte di Pechino. I cinesi avevano promesso di mettere sul tavolo non solo aspetti meramente commerciali – come l’aumento di importazioni per riequilibrare lo sbilancio import/export con gli Usa – ma anche questioni più profonde come l’accesso al mercato, i furti di proprietà intellettuale, la cessione obbligata di know-how.

Pechino ha risposto facendo sapere che giovedì e venerdì il viaggio a Washington della delegazione guidata da Liu He, vicepremier e soprattutto zar economico per investitura diretta del presidente Xi Jinping, è confermato. Un appuntamento già fissato la scorsa settimana, dopo che Lighthizer e Mnuchin erano stati nella capitale cinese per un precedente round all’interno del batti e ribatti dei colloqui.

PERCHE’ QUEL TWEET DI TRUMP

È stata una sottolineatura importante, dato che inizialmente il governo cinese aveva detto di aver messo in stand by il viaggio (che è comunque slittato, visto che Liu doveva arrivare lunedì), a seguito di una dichiarazione via Twitter di Donald Trump che è quella che ha ufficialmente aperto questa nuova fase burrascosa. Il presidente americano, domenica pomeriggio, ha detto che a breve avrebbe deciso di introdurre nuovi dazi, perché – sostanzialmente – era stufo del traccheggiare cinese.

Trump minacciava non solo di alzare quei dazi già imposti al 10 e portarli al 25, così da riportare quei 200 miliardi di dollari di prodotti alla stregua di altri 50 su cui l’amministrazione era già intervenuta un paio di anni fa, ma anche di allargare la misura a nuovi 325 miliardi, così da coprire con l’aumento delle misure tariffarie tutto il mercato d’esportazione cinese negli Usa.

Stante alle ricostruzioni successive, Trump probabilmente aveva saputo dei passi indietro cinesi, aspetto di cui i due top-negoziatori americani hanno avuto percezione durante il loro ultimo viaggio a Pechino, secondo quanto raccontato ieri in conferenza stampa (“Un’erosione negli impegni presi” l’ha definita Lighthizer).

LA RISPOSTA CINESE

I cinesi hanno provato a rassicurare che le cose andranno a posto, e Liu avrà questo enorme compito nei prossimi giorni a Washington. Il Global Times, giornale che diffonde la linea governativa cinese in inglese, ha scritto che Pechino è pronta ad attutire le conseguenze, “incluso un blackout temporaneo dei colloqui”, perché la porta per una accordo non “sarà chiusa” nemmeno se gli Stati Uniti dovessero decidere di aumentare nuovamente le tariffazioni.

È un segno che forse anche i cinesi hanno ormai capito che spesso il presidente americano usa metodi di trattativa commerciale anche in ambito di relazioni tra stati, stressando l’agenda per cercare di ottenere il massimo dai deal in negoziazione. Da Pechino ci sono state critiche alla mossa americana, letta come un tentativo di portare la Cina a chiudere un accordo meno vantaggioso, ma sostanzialmente i cinesi sembrano tenere il punto dei colloqui.

I mercati, che sono l’altro importante elemento da valutare per comprendere come queste dinamiche siano assorbite dal sistema, si sono mossi in modo convulso. Gli indici americani e cinesi hanno aperto con nette perdite lunedì, conseguenza della dichiarazione di Trump del giorno precedente, ma poi hanno recuperato – pur restando negativi – nonostante i commenti di Lighthizer e Mnuchin anche perché s’è saputo che comunque Liu sarebbe andato a Washington.

Stesso andamento, finora, oggi. Nella fase di stesura di questo pezzo, il FTSI Mib italiano, il principale indice della Borsa, sta perdendo terreno rispetto all’apertura, ma resta positivo. L’Italia è un mercato da monitorare perché schiacciato in mezzo a queste dinamiche sino-americane, sia in termini economico-commerciali che politici.

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