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L’Europa dorme sulla Libia. Guida ai soldi e al petrolio per capire la guerra

Libia

Il generale Khalifa Haftar è riuscito, nell’ultimo mese, a condurre una manovra che va verso Tripoli, ma passando anche per il sud e il Fezzan, dove egli ha stretto importanti rapporti con le tribù locali. È una manovra costosa, che è stata finanziata dagli alleati storici dell’esercito dell’Est e di Bengasi. Ovvero dall’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi Uniti, dall’Egitto, dalla Francia e dalla Federazione Russa. L’arrivo a Tripoli, per il generale della Cirenaica, è legato soprattutto alla conquista delle risorse che sono ancora nelle mani del governo di Al Serraj, apprezzato dall’Onu, ma che si fonda unicamente sull’appoggio e il sostegno di ormai inaffidabili gruppi militari dell’ovest libico. Haftar ha, sostanzialmente, tre obiettivi: far fuori tutti gli islamisti, poi conquistare tutte le riserve monetarie e petrolifere libiche, dato che il suo regime, a Bengasi, non può esportare regolarmente il greggio per il solito embargo Onu internazionale e, quindi, i soldi del petrolio li incassa ancora la sola Tripoli.

Poi, infine, unificare la Libia. Se, comunque, Haftar non riuscisse a conquistare totalmente le finanze di Tripoli, potrebbe però determinare la secessione dell’Est da Tripoli e quindi la commercializzazione autonoma del suo greggio, che è ben maggiore, per quantità, di quello di Tripoli. E inoltre c’è la banca di Al Bayda, quella di Bengasi, che ha un debito nei confronti della banca di Tripoli di oltre 40 miliardi di dinari (circa 25 miliardi di euro) che non sta ripagando. Per risolvere i problemi di liquidità all’Est libico, la Banca di Al Bayda (l’antica “Baida Littoria”) ha dichiarato di aver fatto stampare 10 miliardi di dinari in Russia. Peraltro, è proprio in Russia che viene stampato tutto il circolante di Bengasi, con tanto di immagini di Gheddafi sul recto. È questa la ragione, quindi, che spinge Haftar a conquistare gran parte dei pozzi di petrolio tra l’Est e il Centro della Libia, si tratta, infatti, di far pressione contro la Banca Centrale Libica e il governo di Tripoli.

La Banca centrale di Tripoli riceve ancor oggi tutti i denari della vendita dei petroli, ed ha ancora a disposizione gran parte delle risorse del vecchio regime di Gheddafi. Al Serraj, il capo del governo di Tripoli, è comunque, oggi, un profeta disarmato, secondo il criterio, mai invalidato, del Machiavelli, mentre Khalifa Haftar ha le armi ma non i soldi libici. Haftar ha finanziato le sue recenti operazioni militari con un mix di obbligazioni non ufficiali, poi una massa di denaro stampata in Russia e, infine, alcuni prestiti da banche straniere, creando una massa di debito per oltre 35 miliardi di dinari, ovvero 25 miliardi di dollari usa.

I fondi di Haftar depositati nella Banca Centrale Libica potrebbero non essergli, oggi, interamente accessibili. Gli alleati del Golfo e l’Egitto hanno finora fornito al generale di Bengasi solo armamenti, non liquidità, e quindi il generale di Bengasi è stato costretto a pagare i veicoli e l’altro armamento leggero con la valuta forte che gli è stata consegnata dalla Banca Centrale, quando ancora l’uomo di Bengasi aveva accesso a quel credito. O meglio, alla quota sulle vendite petrolifere dai pozzi situati nel territorio da lui controllato. La moneta forte prelevata dalla Banca Centrale di Tripoli è stata resa possibile utilizzando delle lettere di credito redatte da molte banche commerciali dell’Est libico.

I dati militari di Haftar, per quanto se ne sa, sono questi: mille uomini inviati verso Tripoli, più altri 250 elementi di supporto. Se l’offensiva dall’Est fallisce, lo ricordiamo, Haftar venderà il suo petrolio autonomamente. Che non si sia parlato di questi problemi economici, nella recente conferenza di Palermo organizzata dal governo Conte, ci dà il senso dell’inanità ingenua dell’Occidente. Il generale della Cirenaica pensava, forse, all’inizio dell’avanzata, di far cadere Tripoli in 48 ore. Ma ha trovato la resistenza coriacea delle sole forze di Misurata.

Probabilmente, Haftar ha cercato un accordo o lo ha ritenuto facilmente possibile. Non è stato così. I pagamenti a Misurata e il loro potere sul governo di Fayez Al Serraj hanno fatto pensare a Mitig e agli altri loro capi che era meglio rimanere nel campo di Tripoli. I misuratini, lo ricordiamo, hanno eliminato, quasi da soli, lo stato islamico a Sirte nel 2016, ricevono poi flussi di armi e di denaro da Turchia e Qatar, che sono le forze che proteggono i vari filoni della Fratellanza Islamica ovunque in Medio Oriente e, comunque, i misuratini non combattono per Al Serraj, ma per loro stessi. Se, prima, la guerra in Libia sembrava essere il solito conflitto per procura tra le solite potenze, regionali o globali, ora la guerra in Libia è l’occasione, per tutti gli attori globali, di riposizionarsi in Libia e cercarsi, o crearsi, nuove pedine locali. Da guerra tra fazioni, vagamente sostenuta da attori regionali e globali, lo scontro libico è diventato una nuova Siria, uno scontro che non ha fine. E dove molti giocano su vari tavoli. Gli Stati Uniti sono, infatti, rientrati in partita.

È ovvio che Trump, per lo stretto legame che lo lega all’Arabia Saudita, solida alleata di Haftar, e per evitare poi di regalare l’intero esercito cirenaico ai russi, oggi sostenga il generale di Bengasi. L’Africom degli Stati Uniti si è infatti rapidamente rilocalizzata, mentre prosegue l’attività delle truppe Usa contro i residui del “califfato”. Putin gioca defilato, sostenendo certamente il generale Haftar, come ha sempre fatto, ma tenendo anche d’occhio gli interessi della Turchia, paese amico di Mosca ma alleato degli avversari del generale della Cirenaica. Putin vuole, con ogni probabilità, diventare il mediatore indispensabile e unico, oltre che il principale sostenitore del generale Haftar, che può comunque indirizzare. Tra Haftar e la Federazione Russa c’è, oggi, un rapporto molto simile a quello che c’era, all’inizio della partecipazione di Mosca nella guerra siriana, nel 2015, tra gli stessi russi e le forze di Bashar el Assad.

Il limitato sostegno ad Haftar da parte della Russia prolunga inevitabilmente la crisi libica, il che permette a Mosca di far notare l’errore marchiano dell’intervento occidentale del 2011 e di mettere inoltre sullo stesso piano, simbolicamente, la Libia e l’Ucraina. Haftar aveva fatto tre esplicite richieste ai russi, quando si trovava a bordo della portaerei Kuznetsov: sostegno politico per rafforzare la sua immagine, appoggio logistico per alleggerire l’embargo sulle armi imposto dall’Onu, infine una buona quantità di armi russe subito. La Russia è però sostenitrice dell’embargo delle armi in Libia, ma invia comunque le proprie armi ad Haftar, tramite l’Egitto.

È improbabile che Putin, però, vada oltre questo livello di impegno libico. Ha infatti già accolto Al Serraj al Cremlino, ma non si farà mai coinvolgere in un conflitto libico. Potrebbe però sostenere Haftar per la sua “guerra al terrorismo”, che anche Trump vede di buon occhio. Gli stati europei, Italia, Francia e Regno Unito, vogliono oggi solo evitare l’escalation del conflitto, senza peraltro avere il controllo del terreno e dei rapporti credibili con le parti in lotta.

“La guerra non si leva, ma si differisce a vantaggio di altri”, diceva Machiavelli, ed è una nota esaustiva per l’inanità europea. Se la Russia dovesse essere inserita in un prossimo “gruppo di contatto” per la Libia, allora Mosca dovrebbe diminuire il suo sostegno ad Haftar, come è ovvio intuire. Ma la trattativa dovrà essere seria: accettazione del ruolo primario della Russia in Libia, un accordo con gli Usa, presenza stabile degli europei in Libia. Se si pone poi mente alla crisi dei rapporti tra Qatar e il resto del mondo sunnita, allora Abu Dhabi potrebbe sostenere la sua lotta contro l’islam politico in Siria, in relazione con le stesse operazioni in Libia. Altro atout di Mosca. Potrebbe infatti sostenere Haftar, l’emirato di Abu Dhabi, ma lentamente e senza infastidire i sonnolenti europei, clienti primari degli Emirati. La Russia poi, nel confliggere delle inani proposte europee, potrebbe portare avanti il primo degli obiettivi che Mosca si è posta nel Mediterraneo: la costruzione di una base militare nella Cirenaica, che farebbe da triangolazione con quelle russe della costa siriana e le altre sulle coste egiziane. Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur.

E l’Italia? Il sostegno a Al Serraj era inevitabile, visto che quasi tutti i nostri interessi erano nella parte tripolina. L’errore è stato quello di fare i soldatini dell’Onu, senza paga peraltro, e sostenere Al Serraj senza tessere legami anche con gli altri. Haftar è stato, quindi, oggetto di attenzioni da parte dei francesi, visto che gli altri europei lo lasciavano solo. E perché la scelta di Roma? Non c’è nessun vero perché strategico e militare, c’è solo l’adorazione, da parte dell’Eu, dei “profeti disarmati”. E ora, però, ogni rincorsa ad Haftar sarebbe inutile e masochistica. Inimico a Dio e alli inimici suoi. Se seguissimo ancora solo l’idea degli alleati Usa, oggi filo-Haftar, allora ci legheremmo ad un alleato che ci ha sempre marginalizzato, un errore che ci potrebbe costare tutta la Libia, essendo ormai lontani da Al Serraj e privi di credibilità con Haftar.

Gli Stati Uniti si possono permettere il lusso di cambiare cavallo in corsa ed essere ancora rispettati, noi no. Difendere comunque, però, le nostre postazioni a Misurata, l’ospedale, ed utilizzare questa carta per rientrare in gioco. Haftar, peraltro, nella sua cavalcata verso Tripoli, si è già preso i maggiori campi petroliferi del sud e dell’Ovest. Il campo di El Sharara, da 300mila barili al giorno, e quello di El Feel, controllato da Eni e Noc, la società nazionale libica; ma soprattutto abbiamo ormai perso Al Serraj, che non conta più nulla, e anche i legami con le numerose fazioni, che vanno per conto loro o, meglio, per conto di chi le paga. E, fra questi, ci siamo anche noi. Nessuna reazione si è verificata però, a Roma, dopo che Haftar ha “preso” El Feel, cosa grave. Inerzia governativa che viene letta in un modo solo: l’Italia non conta un piffero e ha paura di noi.

I francesi hanno, è noto, aiutato Haftar in maniera evidente e significativa: i Mirage hanno battuto la zona tra il Ciad e il Fezzan, per evitare reazioni negative delle tribù locali e, sempre i francesi, stanno mettendo in ponte un incontro sostanzioso tra Serraj e Haftar. Peraltro, Macron ha ricevuto a Parigi, l’otto novembre scorso, dei dirigenti delle brigate di Misurata, mentre nello stesso periodo dei dirigenti dei Servizi francesi si sono recati proprio da Serraj, forse per garantirgli una “uscita di sicurezza”. I rapporti di Conte e Al Sisi, poi, sono ormai ai limiti della sola cordialità personale. Noi siamo ormai gli unici protettori perinde ac cadaver di Al Serraj, mentre l’Egitto, braccio armato dell’Arabia Saudita, gioca tutte le sue carte su Haftar. Né le ultime giravolte convinceranno i paesi arabi della nostra “amicizia”, di recentissimo conio, con Haftar.

Una possibile carta da giocare per l’Italia? Saif Al Islam El Gheddafi, il secondogenito del Raìs. Sostenitore di Haftar ma autonomo tessitore di reti nazionali ed estere, Saif è, probabilmente, l’unico che potrebbe ricominciare il dialogo tra le fazioni in Libia. Amico affidabile dei petrolieri italiani, ha anche un ottimo rapporto con la Russia, che ha recentemente dichiarato ufficialmente di sostenerlo. Se si dimenticasse, per un attimo, la seduzione alcinesca, come la chiamava Croce, delle elezioni, che bloccherebbero peraltro oggi la Libia nello status quo in cui nessuno ha vinto davvero, si potrebbe sostenere Saif Al Islam come prossimo presidente libico, in un accordo tra le fazioni.



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