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Pompeo chiama l’Egitto per provare a fermare la guerra in Libia

Un report di aggiornamento sulla situazione in Libia diffuso stamattina dalle Nazioni Unite dice che il “deterioramento delle condizioni sul terreno, con crescenti carenze idriche e interruzioni di corrente nelle aree colpite dal conflitto”, hanno portato 82mila persone ad abbandonare le proprie case all’interno della cerchia dei combattimenti tra le forze di Khalifa Haftar e quelle di coloro che difendono Tripoli dall’aggressione del signore della guerra dell’Est. Ci sono almeno 100mila persone rimaste nelle zone coinvolte direttamente nel conflitto a fuoco, mentre il numero sale a 400mila se si pensa a coloro che vivono nel raggio ristretto di pochi chilometri dai luoghi di scontro. Il numero dei morti è salito a 562, di cui 106 civili, e 2855 i feriti (dati WHO).

LO STALLO

La situazione è di stallo assoluto, sia militare che politico. Oggi il comandate che coordina le forze miliziane di Misurata – città stato da cui viene il premier onusiano Fayez Serraj, intervenuta per respingere Haftar – ha detto di essere pronto a resistere e di avere il controllo della situazione. Haftar è bloccato alle porte meridionali di Tripoli e sta cercando di sfondare con i bombardamenti aerei. Nel corso di queste sette settimane di guerra, più volte gli attacchi dal cielo sono stati condotti in maniera avventata e hanno colpito i civili: anche questa volta sotto i caccia haftariani ci sono finite aree residenziali come Salah Eddin, Ain Zara, il distretto di Swani e il quartiere dell’ospedale “Nafis”.

GUERRA CIVILE DI POSIZIONE

Come temevano molti analisti, l’attacco a Tripoli di Haftar s’è trasformato in una guerra civile di posizione. Nessuno ha la superiorità tecnica per battere l’altro fronte, e ogni giorno che passa aumentano morte e distruzione. Per il generalissimo della Cirenaica si somma anche una problematica tattico-logistica: i suoi uomini combattono a centinaia di chilometri dal loro quartier generale, sfruttano postazioni nel Sud guadagnate negli scorsi mesi, ma soffrono perché per avanzare su Tripoli devono lasciarle scoperte dato che le catene di approvvigionamento – di armi, viveri e medicine – sono state in parte interrotte dai misuratini.

Non è chiaro quanto potrà ancora spingere Haftar ma non è chiaro nemmeno quanto potranno ancora resistere le forze che gli si oppongono (che però hanno la logistica dalla loro parte). In più, il rischio è che l’aumento dei combattimenti crei spazi per la crescita delle istanze terroristiche (lo Stato islamico è tornato a mostrarsi pubblicamente in Libia e lo ha fatto anche sulle pubblicazioni propagandistiche messe a tacere nei mesi scorsi, quando il gruppo aveva avviato un posizionamento strisciante sulla fascia desertica a sud di Sirte).

CONTATTI DIPLOMATICI

Ieri il segretario di Stato statunitense Mike Pompeo ha avuto una conversazione col suo omologo egiziano, il ministro degli Esteri Sameh Shoukry, in cui i due hanno parlato soprattutto di Libia. Secondo il readout fornito dal dipartimento americano, Pompeo ha posto di fronte al collega egiziano “l’urgente necessità di raggiungere una soluzione politica in Libia e prevenire un’ulteriore escalation”. L’Egitto è uno degli attori esterni più interessati alla situazione: è un paese confinante che rivendica un’influenza profonda in Cirenaica e che fa da sponsor esterno (anche armato) ad Haftar.

Stante lo stallo sul campo, potrebbe essere la mediazione di alcuni dei paesi più coinvolti – Turchia e Qatar dal lato della Tripolitania, Emirati Arabi ed Egitto su quello della Cirenaica – a poter creare il clima di pressione per far deporre le armi. Però il prolungarsi dei combattimenti sta mettendo sempre più a fuoco come la Libia si sia trasformata in un terreno di battaglia per procura a medio-bassa intensità, dove posizioni opposte all’interno del mondo sunnita intendo regolare i conti.

Su questo, paesi come Stati Uniti, Francia, Italia stanno cercando di lavorare con le Nazioni Unite per trovare una quadra e raggiungere un cessate il fuoco da cui poi far ripartire i negoziati prima che sia troppo tardi. Lo stallo militare, le nuove armi arrivate in mano a combattenti nei giorni passati, comandanti inesperti e mossi da letture avvelenate della situazione, sono le condizioni perfette perché a qualcuno slitti la frizione e produca un bagno di sangue irreversibile. “A volte la Comunità internazionale è impotente in Libia” ha detto il delegato Onu Ghassan Salamé in un’intervista a France 24.



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