“Venire a scoprire di essere licenziati navigando sui social è un atto degno della barbarie dei tempi in cui viviamo” spiega in quest’intervista con Formiche.net Giuliano Cazzola, tra i più ascoltati giuslavoristi italiani, ha ricoperto importanti incarichi sindacali di categoria e confederali per circa trent’anni. Eppure la storia di Mercatone Uno lo ha “sorpreso” anche se, “il fallimento non è la fine di tutto”. Semmai il vero problema è che “siamo nelle mani di “conducator irresponsabili, che hanno combinato più guai con le chiacchiere che con i fatti” dove “per fare politica assistenziale il governo ha sacrificato gli investimenti e la riduzione del cuneo fiscale sul lavoro” e dove “alcune ‘teste d’uovo’ della Lega pensano ad un’economia chiusa e ad una moneta che perde il suo valore di scambio”. Ma per fortuna – ricorda Cazzola – “avere istituzioni europee decise a difendere il ‘vincolo esterno’ (ovvero il rispetto delle regole sia pure con la consueta flessibilità) è una garanzia per il nostro Paese”.
Che idea si è fatto della storia del Mercatone Uno? Oltre 1800 lavoratori dall’oggi al domani messi alla porta da una finanziaria maltese, Shernon Holding, che aveva promesso un piano di rilancio dell’azienda…
Sono rimasto sorpreso. Credo però che si debba capire meglio come si è arrivati al fallimento. Se è stata un’iniziativa della proprietà o la conclusione di una procedura giudiziaria avviata con la precedente gestione. In ogni caso il management ha compiuto una grave scorrettezza che esula dalle regole minime di fair play delle relazioni industriali. Venire a scoprire di essere licenziati navigando sui social è un atto degno della barbarie dei tempi in cui viviamo. Del resto anche i capi di Stato e di governo danno ordini attraverso Twitter e Facebook…
Cosa è mancato? La vigilanza del ministero? Oppure era davvero difficile rilanciare un’azienda decotta che andava avanti, tra alti e bassi, da più di sette anni…
Domani è programmato un incontro al ministero dello Sviluppo. Dopo capiremo meglio la situazione. Certo non è facile rilanciare un’azienda decotta all’interno di un mercato difficile. Però c’era l’impegno di fare investimenti. Perché non è stato mantenuto? A volte succede che la forza della disperazione porta i lavoratori e i sindacati a fidarsi di chi si fa avanti per subentrare in un’azienda in crisi.
Il crac di Mercatone Uno si porta dietro anche un indotto di 500 aziende creditrici per circa 250 milioni non riscossi. Cosa si può fare adesso?
Per esperienza – ho fatto per trent’anni il sindacalista con incarichi di responsabilità e di rilievo – le dico che il fallimento non è di per sé la fine di tutto. Il tribunale nomina dei curatori magari con il compito di continuare l’attività produttiva in attesa di una soluzione imprenditoriale. Il fallimento congela la situazione debitoria (il che è un guaio per i creditori) e consente di pagare gli stipendi ai lavoratori in regime di prededuzione (al di fuori cioè dall’asse debitoria). Poi bisogna vedere cosa è possibile fare con gli ammortizzatori sociali. Ci sono casi precedenti in cui è stato possibile l’intervento della Cig.
Secondo lei ha pesato anche l’abolizione dell’articolo 18 in questa vicenda?
La questione dell’articolo 18 non c’entra nulla. La norma regolava i licenziamenti individuali non quelli collettivi, la cui procedura non ha subito modifiche. Peraltro l’azienda ha l’obbligo di comunicare come intende trattare i lavoratori, non basta chiudere per interrompere il rapporto di lavoro. Ci sono comunque delle regole da seguire.
Tutto questo avviene in concomitanza con le elezioni, la vita reale irrompe tra le promesse dei politici. Come giudica a tal proposito il quadro economico dell’azienda Italia?
Non è la prima azienda che fallisce anche in tempi migliori di questi. Le parlavo delle mie esperienze. Una delle vertenze più difficile che ho dovuto gestire riguardava il gruppo Orsi Mangelli (correvano gli anni ’70). Il tribunale di Milano ne dichiarò il fallimento il 14 agosto. Passai Ferragosto con i lavoratori. Però i due curatori fallimentari arrivarono subito sul posto e continuarono l’attività produttiva. Allora era ministro dell’Industria Carlo Donat Cattin. Con lui riuscimmo a trovare delle soluzioni che hanno retto per vent’anni.
E venendo ai tempi nostri? Che sta succedendo alla nostra economia?
Penso che siamo nelle mani di “conducator” irresponsabili, che hanno combinato più guai con le chiacchiere che con i fatti. Purtroppo l’esito delle elezioni è abbastanza scontato. La Lega vincerà male, il M5S perderà bene. Ma a dare le carte saranno ancora loro. Se per ipotesi (a cui non credo perché i sovranisti avranno un’affermazione ma non cambieranno gli equilibri nel Parlamento europeo) gli organismi europei finissero nell’impotenza, al grido del “liberi tutti”, a noi italiani gli attuali governanti faranno vedere i “sorci verdi” con minori entrate fiscali e più spesa pubblica, potenziamento delle politiche assistenziali, assenza di investimenti produttivi e (non) sblocco di quelli già previsti e finanziati.
Sta dipingendo un quadro molto fosco. Ma quale è il vero problema?
Ciò che i “nostri” non riescono a capire è che un Paese non può uscire da una comunità internazionale a cui è legato – oltreché dall’appartenenza alla stessa moneta – da rapporti economici integrati ed interdipendenti. Anche perché sarebbe comunque costretto a fare i conti con un’istituzione invisibile, impersonale ma onnipresente: il mercato, dove deve vendere i suoi prodotti, importare le materie che gli servono, approvvigionarsi delle risorse finanziarie che gli sono necessarie. Alcune “teste d’uovo” della Lega pensano ad un’economia chiusa e ad una moneta che perde il suo valore di scambio per trasformarsi in una sorta di “rublo” ai tempi dell’Urss.
Addirittura…
Si stanno baloccando con l’idea di una ristrutturazione del debito, nell’ambito di un’economia dirigistica in cui lo Stato assuma un ruolo non solo di indirizzo, ma di intervento diretto. Ecco perché l’avere istituzioni europee decise a difendere il “vincolo esterno” (ovvero il rispetto delle regole sia pure con la consueta flessibilità) è una garanzia per il nostro Paese.
Eppure ad aprile l’Istat ci ha detto che la produzione industriale, nonostante il calo di marzo, ha registrato nel trimestre un tondo +1%. Ma allo stesso tempo sono saliti i numeri della cassa integrazione. Come leggere questi dati?
I dati della produzione nel primo trimestre sono stati una fiammata che non si ripeterà allo stesso modo nel secondo. Noto che è la cassa integrazione straordinaria a segnare il maggior incremento. Ciò significa che le imprese hanno problemi di carattere strutturale. Non è un bel segno.
Si parla molto di dove destinare gli avanzi – anche se fatti in deficit – sia del reddito di cittadinanza che di Quota 100. Quale è la sua opinione?
Per fare politica assistenziale il governo ha sacrificato gli investimenti e la riduzione del cuneo fiscale sul lavoro. Il bello è che sul RdC e su quota 100 il governo ha litigato con tutti, ha promesso mari e monti (più occupazione ed eliminazione della povertà) ma alla fine non è riuscito a spendere le risorse stanziate. A parte il miliardo che si prevede di risparmiare con il RdC (bisognerà aspettare la nuova legge di bilancio – ha ragione Tria – perché oggi quel miliardo non c’è ancora) uno studio della Fondazione Di Vittorio della Cgil ha stimato che vi sarà un importante risparmio anche dalle pensioni: 7 miliardi in tre anni, di cui 1,6 miliardi nel 2019 (3 miliardi nel 2020, 2,5 miliardi nel 2021). Non parliamo poi delle politiche attive dove siamo ancora all’anno zero. I navigator non si sono ancora imbarcati.