Viene al pettine qualche nodo di cui si parlava fin dal varo del Decreto sicurezza e si torna a uno scontro frontale tra politica e magistratura com’è avvenuto tante volte in passato. La questione riguarda la possibilità dell’iscrizione all’anagrafe per gli immigrati richiedenti asilo, possibilità esclusa dal decreto e invece ammessa dalla sezione civile del Tribunale di Bologna che ha ordinato all’amministrazione comunale l’iscrizione di due richiedenti accogliendone il ricorso. L’annuncio dato con soddisfazione dal sindaco di Bologna, Vincenzo Merola (Pd), ha scatenato la reazione del ministro dell’Interno: “Sentenza vergognosa – ha commentato a caldo Matteo Salvini -, se qualche giudice vuole fare politica e cambiare le leggi per aiutare gli immigrati, lasci il tribunale e si candidi con la sinistra. Ovviamente faremo ricorso contro questa sentenza, intanto invito tutti i Sindaci a rispettare (come ovvio) la legge”. Nel caso specifico il Comune aveva correttamente applicato la norma negando l’iscrizione, decisione da cui è scaturito il ricorso. Dal Viminale aggiungono che una singola sentenza non modifica la legge in vigore come potrebbe fare eventualmente solo la Corte costituzionale, anche se siamo almeno al secondo caso perché a marzo il Tribunale di Firenze aveva accolto il ricorso di un somalo per lo stesso motivo.
In un comizio a Reggio Emilia Salvini è tornato sull’argomento aggiungendo altro pepe: ha ipotizzato infatti che nella riforma della giustizia, che potrebbe arrivare presto al Consiglio dei ministri, venga introdotta una norma in base alla quale “anche i giudici che sbagliano paghino come tutti i lavoratori”. Frase da comizio, per ora senza dettagli su che cosa in concreto cambierebbe nella normativa sulla responsabilità civile dei magistrati e senza considerare che cosa ne pensano al Movimento 5 stelle che esprime il ministro della Giustizia con Alfonso Bonafede.
È vero che una sentenza non cambia una legge, ma può fare giurisprudenza e sul tema ha avuto poca eco mediatica una recentissima sentenza della I sezione civile della Corte di Cassazione in base alla quale, per negare l’asilo, i giudici devono provare che nel Paese di origine l’immigrato non sarebbe in pericolo di vita, cioè non possono più basarsi su generiche fonti internazionali. Una pronuncia che, provenendo dalla Suprema Corte, ha ben altro peso e inciderà su molti processi anche se sull’immigrazione sezioni diverse della stessa Corte si contraddicono: l’ultima sentenza afferma la retroattività del Decreto sicurezza stabilendo che si applica anche ai giudizi in corso mentre una pronuncia dello scorso febbraio aveva stabilito che il decreto non fosse retroattivo.
Il nervosismo di Salvini dopo la decisione del Tribunale di Bologna è spiegato anche con il pessimo clima politico attuale, pur se aizzando il proprio elettorato contro la magistratura si ottiene solo una pericolosa spaccatura sociale: anche a Reggio Emilia, riferendosi all’autorizzazione a procedere respinta e all’altra inchiesta in corso, ha ripetuto che “più mi processano e più vado avanti”. Tra l’altro, Salvini è in buona compagnia nell’invitare a candidarsi chi non la pensa come lui: basti citare l’esempio di Luigi Di Maio che commentò allo stesso modo le critiche dei vertici della Banca d’Italia sulla riforma della Legge Fornero.
Dopo parecchie bastonate, in quel comizio il ministro ha usato un pezzetto di carota ripetendo più volte che “gli immigrati regolari e per bene sono miei fratelli” perché “non distinguo in base al colore della pelle”. Allora resta il dubbio: perché un richiedente asilo è per definizione privato di certi diritti visto che alla fine dell’iter potrebbe avere diritto alla protezione? È questo banale concetto che hanno applicato i giudici di Bologna: visto che nel decreto non c’è l’esplicito divieto di iscrizione all’anagrafe e finché non c’è una decisione, la persona è “regolarmente soggiornante” e quindi deve godere di determinati diritti come quello di iscriversi all’anagrafe con ciò che questo comporta. Prima o poi passerà il concetto che anche i provvedimenti approvati dal Parlamento, dove sono tutti eletti, possano essere oggetto di critiche.