Gli ultimi provvedimenti legislativi americani contro i colossi tecnologici di Pechino, alcuni dei quali già in cantiere durante l’amministrazione Obama, “innalzano in qualche modo il livello dello scontro tra Cina e Stati Uniti”. Non si tratta di rottura, spiegano i ricercatori dell’Ispi Alberto Belladonna e Alessandro Gili, piuttosto “Trump, sentendosi in una posizione negoziale di vantaggio, sta cercando di mettere spalle al muro i cinesi contrapponendo ad ogni rifiuto condizioni via via più stringenti nella speranza di una capitolazione”.
Nel breve periodo, rilevano gli esperti, “sarà interesse di entrambe le parti trovare un accordo che ponga fine alle tensioni”. Tuttavia, aggiungono in una conversazione con Formiche.net, “un eventuale accordo limitato, di compromesso, non risolverà i problemi strutturali delle relazioni bilaterali tra i due Paesi, che riguardano lo scontro per la leadership economica e tecnologica globale dei prossimi anni”.
Huawei è al centro delle contese tra Usa e Cina. Una delle questioni più rilevanti è il 5G. Perché?
Il 5G è oggi centrale nelle attuali discussioni sui futuri sviluppi tecnologici e sull’evoluzione della competizione tra Stati, sia per ragioni geoeconomiche sia per considerazioni correlate alla sicurezza delle reti di telecomunicazione. Il 5G sarà infatti in grado di rivoluzionare in modo profondo l’economia del prossimo futuro, con una dipendenza sempre maggiore di interi settori economici dalla nuova rete. Tutta l’industria, ma anche l’istruzione, la medicina e la difesa saranno investiti da quest’innovazione. Accanto ai benefici vi sono anche evidenti rischi: cittadini, aziende e istituzioni saranno sempre più interconnessi e, di conseguenza, più esposti ad interruzioni di servizio, furto di dati e attacchi cyber che potrebbero rappresentare una minaccia per l’economia e la sicurezza nazionale. Washington e Pechino vogliono perciò essere in prima linea nello sviluppo della tecnologia 5G, con la capacità di fornire soluzioni nazionali commercializzabili all’interno dei rispettivi Paesi ma anche a livello internazionale. Ad oggi, solo Huawei sembra in grado di offrire una soluzione completa e competitiva. Tuttavia, il produttore cinese è accusato da Washington di operare come strumento del governo cinese per condurre sorveglianza e intercettare informazioni sensibili negli Stati Uniti e nei Paesi alleati.
Che posizione dovrebbe assumere l’Italia su questo dossier? Utilizzare apparecchiature della compagnia cinese che rischi comporterà in termini di relazioni transatlantiche?
L’Italia, come il resto dei Paesi europei, si trova dinanzi ad una scelta tra aderenza alle richieste americane di vietare l’ingresso a Huawei – in nome di una presunta maggiore sicurezza dei dati che transiteranno sulla rete – o acconsentire all’azienda cinese di installare i propri dispositivi. Nel caso in cui l’Italia decidesse di rifiutare la componentistica Huawei nel proprio mercato 5G si esporrebbe ad un possibile ritardo tecnologico, con conseguenze ancora difficilmente valutabili in termini di mancato aumento di competitività. Per quanto concerne le conseguenze sulle relazioni atlantiche, una scelta favorevole a Huawei potrebbe tradursi in un ulteriore raffreddamento tra Europa e Stati Uniti, anche in ragione della dichiarata indisponibilità americana a condividere informazioni di intelligence con gli alleati che decidessero di optare per una rete 5G con componenti cinesi.
I timori americani di spionaggio sono fondati?
La questione è controversa. Formalmente, i vertici di Huawei dichiarano di non aver mai condiviso informazioni transitanti sulle proprie reti con soggetti terzi, governi o attori privati. Tuttavia, recenti notizie di stampa sembrano rivelare, ad esempio, l’esistenza di backdoor – strumenti per aggirare i controlli di sicurezza e accedere a dati criptati – installati sulla rete di Vodafone Italia e potenzialmente attive tra il 2011 e il 2012. A supporto dei timori americani si aggiungono due recenti leggi cinesi: la legge sulla cyber sicurezza del 2016 e la Intelligence Law del 2017 che impongono a cittadini, organizzazioni e imprese cinesi di cooperare negli sforzi nazionali d’intelligence. A ciò si aggiungono i dubbi sull’effettivo controllo dell’azienda: il 99% è infatti riconducibile ad un Trade Union Committee, la cui natura pubblica accresce la tesi di un’influenza indiretta da parte del Governo cinese. Infine, esiste anche un’altra questione legata al 5G di cui poco si parla.
Ovvero?
Si tratta della competizione relativa alla definizione degli standard sul 5G: attraverso tale processo si deciderà come le reti andranno costruite e come andranno assegnate le royalties alle varie aziende produttrici, considerando il fatto che su questo aspetto l’International Telecommunication Union adotterà infatti come standard quello di una specifica azienda, che dovrà essere successivamente seguito come riferimento dai restanti produttori.
C’è anche un tema di sviluppo tecnologico. Ritenete che la Cina possa sorpassare gli Usa o, come sostengono altri, è ancora lontana dal farlo e per questo ha bisogno di tecnologia americana?
Da diversi anni oramai è in atto in Cina un ripensamento generale dei fondamenti della propria crescita economica. In particolare si tratta di passare da una crescita basata sull’accumulazione di capitale fisico ad una crescita basata sul capitale umano e tecnologico, che sono poi secondo la teoria economica i veri fattori di crescita di lungo periodo. Questo è l’obiettivo del programma “Made in China 2025” che si propone di rendere la Cina non più la fabbrica del mondo di prodotti di massa a basso prezzo ma leader in dieci settori chiave dell’industria del futuro, dall’Information technology alla robotica, dall’energia verde alle nove frontiere della biomedicina. La Cina, dal tempo delle riforme di apertura, ha fatto molti passi avanti tanto da primeggiare in molti indicatori, come la spesa in ricerca e sviluppo. Tutto ciò si è tradotto in una grande capacità da parte della Cina di sviluppare ed incrementare la tecnologia esistente. A fronte di dati quantitativi di tutto rispetto, Pechino rimane invece ancora indietro nella capacità di generare la cosiddetta “disruptive” innovation, ovvero quel tipo di innovazione che rivoluziona l’industria di riferimento. Il motivo di questo è stato individuato da molti autori e ripreso dell’ultimo report Ispi “China’s Race to Global Technology Leadership” da fattori istituzionali, organizzativi e sociali insiti nel sistema cinese che limitano in qualche modo la capacità di creare una “learning economy” ovvero un’economia dove istituzioni organizzazioni e contesto sociale favoriscono la diffusione della conoscenza che a sua volta si autoalimenta dallo scambio di informazioni e relazioni che generano nuova innovazione.
Si va verso un decoupling delle supply chain? Se sì, con quali conseguenze?
Il decoupling, o i primi tentativi di decoupling internazionali erano in atto anche prima di Trump. In modo più soft, l’amministrazione Obama ha infatti cercato in diversi modi di “contenere” la Cina. A livello commerciale, nell’area dell’Asia-Pacifico questo è stato il tentativo di creare un accordo commerciale che regolasse le dinamiche relative al “supply-chain trade” dell’area che andava sotto il nome di TPP. Tale accordo di libero scambio ricomprendeva la regolamentazione degli aspetti relativi alla protezione dei diritti di proprietà, tutela degli IDE, garanzia di standard minimi per i lavoratori e regolamentazione dei sussidi statali e dell’attività delle imprese di Stato: tutte questioni al centro oggi delle contese tra Cina e Stati Uniti. Questi aspetti erano necessariamente limitati ai soli Paesi che partecipano al “supply-chain trade” escludendo la Cina. Più precisamente la Cina aveva l’opzione o di adattarsi alle regole statunitensi o di creare una sua area commerciale. Il fallimento del TPP ha aperto nuovi scenari, con un’America che preferisce supply chain più corte incentrate prevalentemente su accordi bilaterali. La conseguenza a livello aggregato è quella di perdita di efficienza, con ricadute generalizzate sui prezzi. Non è detto tuttavia che ciò non possa favorire le aziende nazionali più competitive dei Paesi più grandi, qualora utilizzino questa “rendita” per innovare e accrescere la loro competitività.
Su Formiche.net Alberto Forchielli ha smontato molti dei luoghi comuni che circondano questa vicenda. Che cosa ne pensate?
Forchielli sostanzialmente sostiene che la possibilità di ritorsioni cinesi verso gli Stati Uniti siano limitate. Per quanto riguarda le terre rare, a dispetto del nome, questi elementi in effetti, non sono affatto rari. Sono stati gli ingenti costi economici ed ambientali legati alla loro estrazione e trattamento, unito anche all’ampia disponibilità sul suolo cinese a rendere la Cina leader nel mercato con oltre l’85% dell’offerta mondiale e il 78% del mercato americano. Questo non esclude che, nell’eventualità di una chiusura delle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti o di un aumento sensibile dei prezzi, Washington non possa avviare una produzione su larga scala o rivolgersi ad altri paesi produttori.
Più complessa la questione relativa al debito. Il debito degli Stati Uniti verso la Cina è di 1,12 trilioni di dollari – il 28% del totale detenuto da Paesi esteri e circa il 5% del debito totale americano. Questa situazione è strettamente collegata al deficit commerciale americano nei confronti di Pechino e alla volontà cinese di non aumentare l’inflazione interna, preferendo piuttosto acquistare bond americani. Vendere i titoli americani avrebbe sicuramente effetti sul valore del dollaro ma anche sul valore dei titoli di stato detenuti dai cinesi. Ne consegue che a soffrirne sarebbero anche i cinesi. Se nel lungo periodo i cinesi si preparano a fare dello yuan la valuta che sostituirà il dollaro come moneta di riferimento, nel breve periodo è invece evidente – osservando i vari dossier aperti, dalla dipendenza tecnologica al debito, dalle terre rare agli squilibri della bilancia dei pagamenti – quanto i due paesi siano dipendenti l’uno dall’altro in una morsa “mortale” o vitale, a seconda di come evolveranno le cose.
Quali scenari?
Gli ultimi provvedimenti legislativi americani, alcuni dei quali già in cantiere durante l’amministrazione Obama, innalzano in qualche modo il livello dello scontro tra Cina e Stati Uniti. Non si tratta di rottura. Trump, sentendosi in una posizione negoziale di vantaggio, sta cercando di mettere spalle al muro i cinesi contrapponendo ad ogni rifiuto condizioni via via più stringenti nella speranza di una capitolazione. Nel breve periodo sarà però interesse di entrambe le parti trovare un accordo che ponga fine alle tensioni, per tornare a una situazione di business as usual, che favorirebbe tanto il presidente americano – a un anno e mezzo dalle elezioni – quanto la controparte cinese, alle prese con una situazione economica interna piuttosto delicata. Un eventuale accordo limitato, di compromesso, non risolverà tuttavia i problemi strutturali delle relazioni bilaterali tra i due Paesi, che riguardano lo scontro per la leadership economica e tecnologica globale dei prossimi anni. I due Paesi hanno però la necessità di trovare un accordo più ampio – di “condominio” – onde evitare di incorrere nel classico dilemma del prigioniero. A fine giugno, al vertice del G20 di Osaka, si riuscirà a comprendere in maniera forse più chiara la piega che potrà prendere lo scontro tra Pechino e Washington per la ridefinizione delle regole del gioco del nuovo ordine internazionale.