Skip to main content

Serraj e Salamé lanciano segnali agli Usa sull’allarme terrorismo in Libia

Intervistato da Euronews, Fayez Serraj, il leader del Governo di accordo nazionale libico (il Gna, proto-esecutivo che si muove sotto egida Onu), ha detto che il recente tour europeo che lo ha portato a Roma, Parigi, Berlino, Londra e Bruxelles è stato “produttivo”, e poi ha aggiunto che “i leader arabi stanno dalla parte del Gna” e che “gode di una cooperazione e della fiducia degli Stati Uniti, in quanto entrambe le parti collaborano con successo nella lotta al terrorismo come avvenuto a Sirte”, che è l’ex roccaforte dello Stato islamico in Libia liberata nel dicembre del 2016 dalle milizie di Misurata in una campagna ibrida che prevedeva la copertura aerea americana e l’advising a terra da parte di forze speciali occidentali (una riedizione di quanto visto a Mosul e Raqqa).

L’ANTI-TERRORISMO

Il rappresentate speciale delle Nazioni Unite per la crisi libica, Ghassan Salamé, intervistato dalla Stampa oggi (l’intervista è curata da Paolo Mastrolilli, il corrispondente da New York, dove il delegato Onu ieri si trovava per ragguagliare il Consiglio di Sicurezza Onu sulla situazione in Libia) ha usato la chiave del terrorismo per attirare l’attenzione sulla linea onusiana che rischia di essere indebolita di giorno in giorno. Salamé ha avvisato che lo Stato islamico sta approfittando della “guerra” per tornare in Libia. La “guerra” è l’aggressione con cui il signore militare dell’Est, Khalifa Haftar (che oggi sarà in visita all’Eliseo), ha cercato quasi due mesi fa di fare scacco su Tripoli e intestarsi il paese (anche per conto di alcuni alleati esterni) come nuovo rais. “Finora ci sono stati quattro attacchi al sud, ma io credo che [l’Is] abbia cellule dormienti anche a Tripoli e altrove”, ha detto Salamé, riferendosi ad alcuni episodi che hanno visto i baghdadisti tornare in azione.

LO STATO ISLAMICO IN LIBIA

Lo Stato islamico ha sempre approfittato degli spazi lasciati liberi nelle situazioni caotiche prodotte da tensioni e conflitti interni: è stato grazie a questo contesto articolato – fatto di scontri e armi, sofferenze socio-culturali ed economiche – che è riuscito a conquistare quell’enorme fetta di Siraq che per anni è stata la base centrale del Califfato, da cui poi si è espanso in altre aree tra cui la Libia appunto. La caduta di Sirte ha lasciato gruppi di militanti – non pochi, e in continua osmosi con le altre istanze che trafficano nel Maghreb – dispersi nelle aree desertiche del sud. Rifugio efficace per evitare i bombardamenti aerei americani che hanno più volte colpito punti di raccolta. Ora però lo stallo politico-militare a Tripoli s’è trasformato in possibilità per rialzare la testa: da settimane c’è un commando baghdadista che si muove nelle zone intorno a Sebha, dove ha compiuto diverse azioni simboliche che sono tornate a riempire le pagine della propaganda collegata all’organizzazione di Abu Bakr al Baghdadi. Ora lo special team jihadista pare sia stato fermato dai miliziani di Haftar – che nella zona hanno il centro di coordinamento tattico-logistico per la campagna tripolina, e sono già finiti almeno due volte sotto attacco jihadista. Però è del tutto possibile che lo squadrone califfale venga rapidamente sostituito per ordine dei vertici baghdadisti libici (che probabilmente sono ancora attivi e ben protetti e forse ancora in contatto con la catena centrale di comando come lo erano un tempo).

I RISCHI DI UN RITORNO

Stante la situazione, Salamé ha invitato “i paesi coinvolti” a muoversi per un cessate il fuoco perché combattimenti a sud di Tripoli stanno non solo portando morte e distruzione, ma anche il riacutizzarsi del terrorismo jihadista dell’Is. Poi il delegato Onu ha chiesto il rispetto dell’embargo sulle armi imposto dalle Nazioni Unite, più volte violato apertamente anche in questi ultimi giorni (armi che potenzialmente potrebbero pure finire nella mani dell’Is se i jihadisti dovessero attaccare le caserme dei miliziani libici). I due piani si intrecciano: l’attacco a Tripoli di Haftar ha messo in chiaro come la Libia sia diventato un territorio di scontro proxy tra le due anime interne al sunnismo. Da una parte la Turchia e il Qatar che hanno una visione islamista, dall’altra Egitto, Emirati Arabi e Arabia Saudita che hanno linee più universalistiche. Nei giorni scorsi si è assistito all’arrivo di nuovi blindati (e nuove munizioni, mitragliatrici e missili anticarro) sia sulla sponda della Tripolitania – probabilmente inviate dalla Turchia – sia su quella della Cirenaica – dove sono gli egiziani e gli emiratini a foraggiare Haftar.

L’AGGANCIO AMERICANO

Salamé dice che in questo momento nessuno vuole smettere di combattere perché tutti pensano che le nuove armi possano far vincere la battaglia. Ma sul campo le due forze sostanzialmente si equivalgono e l’unica realtà che si rafforza è quella del terrorismo. “Ritardare la tregua può produrre danni irreversibili, come l’arrivo di nuovi mercenari, l’uso degli espatriati in attività belliche, l’ingresso di attori che non vorresti in circolazione”. Il tema chiave del terrorismo è importante perché permette al delegato dell’Onu di chiamare in campo gli Stati Uniti, che per la Libia hanno interessi sfumati, e legati prevalentemente a questo.

TRUMP E LA LIBIA

È stata infatti la stessa Casa Bianca a parlare di quanto fosse importante per Washington il counter-terrorism in Libia, inserito nel quadro generale del Maghreb-Sahel, finalizzato alla regione ma anche all’Europa (ci sono collegamenti libici dietro a due attacchi terroristici dell’Is, quello di Manchester e quello di Berlino). È solo che per farlo è stata tirata in ballo una telefonata in cui il presidente Donald Trump avrebbe confermato l’interesse a Haftar, riconoscendogli un ruolo centrale sul tema. Una posizione che secondo Salamé “ha confuso la lettura dei libici della posizione americana”, perché è la stessa con cui le potenze del Golfo spingono il loro uomo nel confronto per procura, accusando di terrorismo tutti gli altri, comprese le milizie che appoggiano il libico dell’Onu, Serraj, perché in alcuni casi connesse con la Fratellanza musulmana, organizzazione jihadista che Cairo, Abu Dhabi e Riad considerano terrorismo (e Washington starebbe pensando a una designazione identica).

×

Iscriviti alla newsletter