Skip to main content

Il Russiagate è entrato in campagna elettorale. Si apre la battaglia sugli omissis

Il Russiagate non esce dal dibattito politico statunitense. Lo scoop del Washington Post, che ha svelato la lettera con cui il procuratore speciale Robert Mueller ha accusato il procuratore generale William Barr di aver stravolto le conclusioni del rapporto (che formalmente non accusa Trump), ha riaperto decisamente il caso.

I Democratici cavalcanola notizia, non accettano la fine dell’inchiesta – che, val da pena di ricordare, è comunque tornata ad accertare l’operazione russa, non definendo però fino in fondo se il team Trump era colluso, e nemmeno se il presidente avesse provato a ostacolare il corso dell’inchiesta. Per i Dems il rapporto Mueller è qualcosa da sfruttare anche in vista del 2020, quando il vincitore delle partecipatissime primarie dell’Asinello cercherà di evitare il secondo mandato al repubblicano.

In questo momento il centro della questione è Barr l’uomo che per l’amministrazione s’è occupato di diffondere i contenuti del Rapporto Mueller, prima con una sintesi sbrigativa di quattro pagine a caldissimo, poi con una rilettura più attenta (durata oltre un mese) a seguito della quale, il 18 aprile, tutte le oltre 400 pagine verbalizzate dal team che ha curato l’inchiesta sulla Russia sono state diffuse alla stampa, ma coperte da omissis necessari per ragioni di sicurezza (ci sono nomi e procedure che potrebbero coinvolgere altri casi e attività di intelligence top secret).

Il primo maggio, Barr ha testimoniato davanti alla Commissione giustizia del Senato: un incontro già fissato in precedenza, che è diventato interessante per lo scoop del Post che ha pubblicato la lettera – scritta il 27 marzo – in cui Mueller si lamentava, frustrato, di come il segretario alla Giustizia aveva gestito la situazione. Secondo Mueller, Barr, nella sua presentazione del rapporto, non riusciva a “catturare pienamente il contesto, la natura e la sostanza” di quello che l’inchiesta aveva scoperto.

La questione è consistente perché Barr invece, in una precedente testimonianza fornita nel frattempo al Congresso, aveva detto che Mueller non aveva voluto rivedere e o modificare la sintesi presentata. La Speaker della Camera, la leader democratica Nancy Pelosi, ha detto che Barr “ha mentito al Congresso e se qualcuno lo fa, è da considerare un crimine; nessuno è al di sopra della legge, non il presidente degli Stati Uniti, e non il procuratore generale”. Replica dal dipartimento di Giustizia: “L’attacco [di Pelosi] al procuratore generale è infondato, spericolato, irresponsabile e falso”.

Ieri lo strappo tra congressisti democratici e dipartimento s’è allargato: Barr, convocato in audizione dalla Commissione Giustizia della Camera, s’è rifiutato di partecipare. Nonostante la sua assenza fosse stata comunicata già mercoledì sera, i Dems hanno inscenato uno show, con i membri della commissione davanti alla sedia vuota da cui il segretario avrebbe dovuto parlare.

Il punto sostanziale non è tanto la mancata comparizione, però. La vera faida che s’è creata tra Congresso, nella figura del presidente della Commissione Giustizia, il democratico newyorkese Jerry Nadler, e il dipartimento, è legata a una richiesta ben più specifica avanzata dai Dems: il rapporto senza omissis. Secondo i democratici, la Commissione ha il diritto di richiedere l’intero report redatto da Mueller, e per questo aveva vissuto il primo maggio come termine entro cui riceverlo, ma Barr per il momento si rifiuta di fornirlo per quelle questioni di sicurezza.

Nadler ha minacciato di avanzare contro il procuratore generale un’accusa di oltraggio al Congresso: la questione è piena di risvolti legali, ma i democratici non vogliono cedere per non mettersi su un pendio scivoloso e perdere terreno su altre lotte. Intanto c’è anche un altro grande obiettivo per i Dems: portare Mueller davanti alla Commissione, Nadler ha parlato di una data, il 15 maggio, ma niente è confermato.

Intanto, ieri, uno scoop di Axios ha reso pubblica un’altra lettera, quella con cui l’avvocato della Casa Bianca, Emmet Flood, accusava lo special counsel Mueller di fare politica quando affermava, commentando l’inchiesta, che il risultato del rapporto “non scagiona” il presidente per ostacolo alla giustizia. I Democratici cercano di costruire un pattern che passi dalla sintesi forzata con cui Barr ha sminuito i risultati del Russiagate alla volontà di non fornire una copia pulita del rapporto, per dimostrare che l’amministrazione sta cercando di nascondere qualcosa.

“Non stanno collaborando in niente”, ha commentato Jamie Raskin, un democratico del Maryland membro della Commissione Giustizia, che però ha dimostrato quanto la campagna fosse anche politica quando ha messo insieme al Rapporto Mueller la dichiarazione dei redditi personale di Trump, che la Casa Bianca si rifiuta di fornire da sempre.

Nadler, ieri, a margine dell’audizione andata a vuoto, ha commentato: “L’amministrazione con la sua politica di sfida generale delle convocazioni congressuali sta dicendo che solo l’esecutivo conta, che [noi americani] non abbiamo bisogno, non vogliamo, limitazioni da parte del Congresso”. È un’altra dichiarazione molto spinta, al limite del propagandistico, che però cerca sponde anche tra qualche repubblicano più ortodosso: i Dems parlano di “inherent contempt“, una normativa vecchia con cui il Congresso può agire contro chi si oppone al suo operato anche al di fuori del sistema giudiziario, ma non è mai stato usato dal 1935 e sarebbe soggetto a una lunga serie di appelli e ricorsi.


×

Iscriviti alla newsletter