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“Il jihad ha sostituito l’utopia comunista”, l’allarme delle intelligence per i giovani (e le donne)

Finora l’obiettivo principale è stato quello di evitare attentati. Un obiettivo che resta fondamentale, naturalmente, ma ce n’è un altro altrettanto urgente: evitare che un radicalizzato diventi un terrorista. Un tema complesso al centro della conferenza Bridg& (Bringing Radicalized Individuals to Disengag&) organizzata dal comparto intelligence che ha riunito 40 delegazioni di intelligence europee, di Paesi affacciati sul Mediterraneo e degli Stati Uniti. La minaccia jihadista resta “attuale e concreta” ha detto Gennaro Vecchione, direttore del Dis, il Dipartimento che coordina le Agenzia Aisi e Aise, e la radicalizzazione va “prevenuta e intercettata nella sua fase iniziale” perché il pericolo “può annidarsi ovunque”. Più collaborazione internazionale, dunque, più partenariato con un occhio alle donne che sono fondamentali nel favorire la radicalizzazione e possono esserlo nella prevenzione.

Quanto avvenuto negli ultimi anni sta portando cambiamenti profondi nella nostra società, una realtà che il vicedirettore vicario del Dis, Enrico Savio, ha provato a descrivere rilevando che “non riusciamo a spiegare perché un modello di società aperta possa generare reazioni ostili”: se non capiamo le cause, parleremmo di “tattica e non di strategia”. Secondo Savio, sarebbe “un errore di paradigma considerare la radicalizzazione come un fenomeno esterno” e diventa perciò indispensabile una visione comune. Finora, infatti, “l’Italia ha affrontato da sola certi problemi” come quelle dell’immigrazione. Visto che siamo tutti “sotto test, se c’è la volontà può nascere un modello” che è stato l’obiettivo della sessione a porte chiuse.

LA CRESCITA DEL JIHADISMO E IL RUOLO FEMMINILE

Le vocazioni jihadiste sono cresciute di 30 volte dal 2013 al 2016, effetto dell’Isis. È uno dei dati forniti dal professore Farhad Khosrokhavar, dell’Osservatorio parigino sulla radicalizzazione della Maison des Sciences de l’Homme. Una capacità attrattiva perché si è dichiarato come Stato: finite le utopie del socialismo o del comunismo, “la distopia dell’Isis ha attirato i giovani”, anche adolescenti che invece al Qaeda non voleva. Diverse le cause sociali: molti soggetti si credono “respinti e vittimizzati, credono di subire trattamenti ingiusti e, tranne che in Italia, ci sono in Europa quartieri con una percentuale tra il 60 e l’80 per cento di giovani emarginati”, quelle banlieue che Khosrokhavar chiama “struttura jihadogenica urbana”. Vecchione, commentando a margine, ha detto che “un’ordinata immigrazione, regolata e controllata, ha permesso all’Italia di evitare la creazione di zone di disagio”. La domanda che l’Occidente si pone è: come integrare in futuro donne e giovani radicalizzati o che addirittura torneranno dalle aree di guerra?

Si parla poco del ruolo delle donne nell’estremismo jihadista perché “hanno potere, ma non autorità, quindi sono invisibili e trascurate dai governi, ha spiegato la professoressa Fatima Sadiqi dell’università marocchina di Fez. Eppure, secondo dati dell’Europol, per reati connessi al terrorismo nel 2014 furono arrestate 96 donne, 171 nel 2015 e 180 nel 2016 e cellule solo femminili sono state arrestate in Gran Bretagna o in Marocco. Nei territori che furono occupati dall’Isis sono nati 730 bambini e per questo, secondo Sadiqi, è importante concentrarsi sulle donne e i minori considerati “di ritorno”: tra l’aprile 2013 e il giugno 2018 4.761 cittadini stranieri su 41.490 (13 per cento) che si affiliarono all’Isis in Siria e Iraq erano donne, i minori erano 4.640.

LA PROPAGANDA SULLA RETE

Sono 10mila le persone che Google impiega per controllare e rimuovere dal web materiale propagandistico jihadista. Più del 70 per cento degli 8,7 milioni di video rimossi non era ancora stato visualizzato, ma per spiegare la difficoltà Miriam Estrin di Google ha ricordato che ogni minuto sono caricate 500 ore di video su Youtube di cui solo lo 0,5 per cento è a rischio e se nel 2017 l’8 per cento dei video era stato rimosso prima che fosse visto 10 volte, nel 2018 la percentuale è salita al 50 per cento. I metodi sono estremamente complessi: con l’Image hashing, per esempio, un video è paragonato a un’impronta digitale che consente di capire passo per passo se uno stesso pixel era presente in un video già rimosso, impedendone la ripubblicazione. Ma in molti casi l’intervento dell’uomo resta indispensabile.

GLI INSEGNAMENTI ITALIANI

Riuscire a individuare un percorso di recupero per un radicalizzato è la sfida del futuro. La professoressa Laura Sabrina Martucci dell’università di Bari lavora con la magistratura pugliese proprio come mediatore su questo fronte: il primo problema è la definizione giuridica di radicalizzato, fondamentale per poter adottare quelle misure che l’ordinamento prevede. Certo è che “l’Italia soffre ancora la mancanza di una legislazione ad hoc che disciplini la prevenzione del terrorismo jihadista”. Un gap che scontiamo, ha rimarcato senza giri di parole Claudio Galzerano, direttore del Servizio per il contrasto dell’estremismo e del terrorismo esterno della Polizia di prevenzione: sconfitto il terrorismo degli anni di piombo e “arginato” quello islamista con “sangue, sacrificio e umile impegno”, Galzerano ha definito le tre parole d’ordine: agire insieme, condividere, valorizzare il livello locale. Il successo o la sconfitta sono di tutti, condividendo informazioni e responsabilità, ed è decisiva la realtà locale, la “carne viva”, il contesto sociale in cui si opera perché ora che l’asticella si è alzata l’impegno è di non far diventare terrorista un radicalizzato. Parole d’ordine che devono essere sempre di più condivise a livello internazionale.

Una specificità italiana è l’attento monitoraggio in carcere fatto dal Nic, il Nucleo investigativo centrale della Polizia penitenziaria: Augusto Zaccariello del Dap ha ricordato che su circa 60mila detenuti gli stranieri sono 20mila e circa 13.600 quelli provenienti da paesi di religione musulmana. Con diversi gradi di isolamento per i detenuti accusati di terrorismo e con la capacità di cogliere il minimo segnale, si applicano programmi di depotenziamento e di deradicalizzazione personali anche con corsi di rieducazione religiosa e corsi per controllare l’aggressività.

Dalle riviste ai video al dilagare dei social network, la propaganda jihadista impegna sempre di più gli investigatori italiani. Il colonnello Marco Rosi, comandante del Reparto antiterrorismo del Ros dei Carabinieri, nello spiegare l’incessante monitoraggio ha anche ricordato come un fatto possa essere immediato, opera di un singolo sconosciuto fino ad allora: l’esempio tipico è Mohamed Game, libico da anni in Italia, che nel 2009 costruì un ordigno artigianale per attaccare una caserma milanese, ma rimase gravemente ferito. Aveva contattato otto volte un sito chiamato dall’Arma Jiharchive, un “archivio” jihadista scoperto quell’anno. Ma Game era uno qualunque, anzi era “trasparente” come l’ha definito Mario Parente, direttore dell’Aisi. “Non siamo all’anno zero” ha aggiunto, ma occorre una “risposta integrata”. La conferenza serve a questo: condividere esperienze sulla prospettiva di genere nel contrasto all’estremismo violento, sulla radicalizzazione online e sull’approccio preventivo multi-agenzia.

Poi ci vorrebbe anche la politica. Una proposta di legge sulla deradicalizzazione che non fu approvata nella scorsa legislatura è stata riproposta nel marzo 2018 da Emanuele Fiano (Pd). Trasmessa a luglio alla commissione Affari costituzionali della Camera, l’iter non è mai cominciato. Se si continua così, quel gap non sarà mai colmato.

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