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Anche col Giappone Trump conferma la politica estera do ut des

La visita di quattro giorni del presidente statunitense Donald Trump in Giappone ha avuto un profondo valore strategico, più che altro per i giapponesi, segnato da un simbolo: l’americano è stato il primo leader internazionale a incontrare l’imperatore Naruhito.

COMMERCIO E TRADIZIONE

Cerimonie, incontri di sumo, riunioni in cui tutto serve a dare un segnale positivo dopo che da circa due anni – ossia, dall’elezione di Trump – i rapporti tra Tokyo e Washington non vanno come da tradizione. C’è il rischio concreto di uno scontro commerciale, con la Casa Bianca che tratta spesso le alleanze tanto al chilo: Trump ha detto anche oggi di essere interessato a ridurre lo sbilancio commerciale sofferto dagli Stati Uniti con il Giappone, nonostante gli sherpa dell’amministrazione davano la questione come un argomento che non sarebbe stato trattato durante la visita (dove l’americano era “ospite di Stato” dell’imperatore e dunque il protocollo prevedeva di tenere a parte certi colloqui scabrosi). Il problema però è profondo: Trump ha già alzato dazi su acciaio e alluminio giapponesi e minaccia di colpire l’automotive – un trattamento simmetrico a quello riservato agli alleati europei – e Tokyo trema perché se s’apre la faida commerciale in gioco ci sono aspetti ancora più delicati.

GIAPPONE, CINA E COREA DEL NORD

Anche per questo il primo ministro Shinzo Abe ha cercato di accontentare l’alleato facendosi vedere propenso a lavorare su alcuni dossier in comune, su tutti la Cina e la Corea del Nord – argomenti importanti per gli Stati Uniti quanto per il Giappone, su cui Tokyo si muove in equilibrio precario perché sa che il peso dell’alleanza americana per far fronte a influenze e minacce da Pechino e Pyongyang è indispensabile, ma vede anche la Cina in corteggiamento continuo. Abe, per esempio, da tempo parla della possibilità di partecipare in modo più diretto alla fase negoziale zoppa che accompagna la denuclearizzazione nordcoreana, di farlo in coordinazione con Washington e nel tentativo – non formale, ma profondo – di sganciare il Nord dalla sfera cinese.

DOSSIER PYONGYANG

Il discorso è tornato di moda in questi giorni di visita trumpiana perché gli Stati Uniti avrebbero dato semaforo verde per un incontro del giapponese col satrapo Kim Jong-un; meeting tutto da definire per il momento. Nel frattempo proprio oggi, da Pyongyang, arrivavano puntuali le solite uscite propagandistiche e provocatorie contro l’amministrazione Trump, cartolina per il ritorno in patria dell’americano. Il portavoce del ministero degli Esteri nordcoreano se l’è presa con il consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton – definendolo un “war maniac” interessato solo ai regime change – rispondendo all’accusa con cui lo statunitense aveva denunciato l’ultimo test missilistico di Pyongyang come violazione delle imposizioni Onu.

DAL NORD ALL’IRAN

È interessante che dal Nord come dall’Iran o da altri rivali americani esca una linea politica indirizzata ad allargare la spaccatura tra le posizioni da falco agguerrito di Bolton e quelle vocate a una prosperità America First non belligerante di Trump. Teheran chiama il primo assistente trumpiano il “team B” della Casa Bianca e dice che se adesso Washington è in fase aggressiva contro l’Iran, la colpa è di un piano interno agli Usa giocato dai falchi come Bolton insieme ad alleati spregiudicati. Ieri Trump, dal Giappone, ha detto chiaramente che non vuole un regime change a Teheran, con lo stesso tono con cui continua a chiamare Kim Jong-un suo partner, sottolineando l’empatia personale create nei loro incontri. Argomento questo con cui la propaganda nordcoreana gioca quando solletica Trump mettendolo in guardia dagli spregiudicati consiglieri che lo circondano e che rischiano di deviarlo dalla sua natura di negoziatore. Il governo giapponese, invece, ha fatto sapere di aver avuti contatti con Bolton a proposito dell’Iran dopo che la scorsa settimana a Tokyo c’era in visita il ministro degli Esteri iraniano. Il Giappone ufficialmente smentisce, ma è molto possibile che Abe visiti Teheran a giugno, anche come impegno di mediazione sulla crisi in corso con gli Usa.

UN RAPPORTO COMPLICATO

Tra Trump e Abe c’è un rapporto complicato in cui il secondo si muove spesso per soddisfare richieste del primo per necessità pragmatica e interessi nazionali legati al mantenimento dell’equilibrio nelle relazioni tra i due Paesi. Nell’autunno scorso, per esempio, la crisi nordcoreana è stata protagonista indiretta di un buffo passaggio subito dalla diplomazia nippo-americana. Trump aveva dichiarato pubblicamente che Abe lo aveva raccomandato per il Nobel per la Pace visto come aveva affrontato la denuclearizzazione con Kim (full disclosure: per ora non c’è nessuna denuclearizzazione in Corea del Nord, e i negoziati Trump-Kim si sono interrotti bruscamente tre mesi fa, e rischiano di schiantarsi entro fine anno. Ndr). Ma Abe, imbarazzato, non aveva potuto che farlo perché era stata la Casa Bianca, come ha poi scoperto l’Asahi, ad aver chiesto a Tokyo di inviare una lettera di raccomandazioni formali in Svezia per far inserire Trump tra i nomi da premiare (come il suo predecessore Barack Obama).

IMPEGNO IN CAMBIO DI AMICIZIA: LA LINEA TRUMP

Oggi, nell’ultima giornata della visita, Trump è salito a bordo della “Kaga”, la portaerei giapponese che nel prossimo futuro ospiterà gli F-35B (quelli a decollo corto e atterraggio verticale) che il Giappone acquisterà dall’americana Lockheed Martin in quello che rappresenta il più grosso rafforzamento postbellico della storia giapponese. In un discorso dal ponte, l’americano ha apertamente chiesto l’impegno di Tokyo su tutti i dossier del Pacifico. È questa la dimensione reale dell’alleanza: Trump chiede ad Abe come a tutti gli altri suoi alleati di farsi carico di responsabilità comuni per riequilibrare non solo questioni commerciali, ma anche l’impegno politico americano in giro per il mondo.

(Foto: Twitter, @realdonaldtrump)


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