IL RUOLO DELLA SVIZZERA
L’amministrazione statunitense ha passato alla diplomazia svizzera un numero telefonico di contatto da essere girato al governo iraniano in caso Teheran volesse seguire il consiglio di Donald Trump e “chiamare” Washington. Lo racconta alla CNN una fonte diplomatica a conoscenza di queste dinamiche e sembra quasi una circostanza buffa, se si pensa che tutto è avvenuto ieri, mentre il segretario di Stato, Mike Pompeo, parlava ancora con i giornalisti di quanto fosse consistente la minaccia iraniana, tanto da richiedere il rafforzato dispiegamento militare che in questi giorni gli Stati Uniti stanno muovendo verso il Medio Oriente dopo aver ricevuto una segnalazione di intelligence sulla possibilità che gli iraniani, o forze a loro riconducibili, pianificassero attacchi contro gli americani e gli alleati.
Washington non ha rapporti diplomatici formali con Teheran, e la Svizzera svolge il ruolo di “protecting power” per gli Usa, ossia fornisce i servizi d’ambasciata ai cittadini americani in Iran, e soprattutto è utilizzata come canale per relazioni più o meno informali. Da tempo è chiaro il piano profondo statunitense: pressare l’Iran per portarlo, stremato, a una nuova fase negoziale in cui Trump vorrebbe sostituire quello che definiva “il peggior accordo della storia” – l’Iran Deal che congelava il programma nucleare della Repubblica islamica – con qualcosa di più stringente, e soprattutto di negoziato da lui.
Dietro a questo piano c’è una questione di carattere filosofico per gli americani – che non accettano che altri paesi giochino ruoli egemonici in determinate aree del mondo senza un allineamento con gli interessi Usa. L’Iran, a differenza di Arabia Saudita o Israele, pensa a un Medio Oriente senza gli Stati Uniti, cerca un’espansione di influenza mossa in termini ultra sovranisti e anche in chiave anti-Usa, e per questo viene considerato un nemico. Meta-filosofia: sauditi e israeliani sono in questo momento i migliori alleati di Washington, e sono entrambi paesi che vedono l’Iran come un nemico esistenziale dal punto di vista ideologico e un rivale con cui competere sul piano geopolitico e geoeconomico. Riad e Gerusalemme furono i principali oppositori all’accordo sul nucleare, che comportava non solo un’intesa in sé ma una sorta di ordine regionale/globale deciso da un sistema multilaterale di paesi. L’accordo è stato l’elemento che ha portato i due partner mediorientali ad allontanarsi dalla Washington dell’amministrazione Obama; il ritiro trumpiano dal Deal, opposto logico, uno degli elementi che ha ricostruito le relazioni tra americani, sauditi e israeliani.
SFIANCARE IL NEMICO
In questo quadro si muovono linee delicate: per esempio, all’interno dell’amministrazione Trump ci sono posizioni molto più agguerrite di quelle simil-presidenziali che vogliono un canale aperto come quello svizzero. Sono quelle incarnate dal falco capo del Consiglio di Sicurezza nazionale, John Bolton, che tra quelle pressioni vorrebbe anche qualcosa di più: se non proprio spingere verso un regime change, quanto meno indurre l’Iran a uno scivolone, a un errore, con cui giustificare ancora maggior pressing, un isolamento completo, per poi portarlo al tavolo completamente sfiancato.
Secondo diversi analisti, questa strada non farà altro che rinfocolare le posizioni più reazionarie all’interno del regime iraniano, ma questo è un passaggio compreso nel piano americano. In Iran, il presidente Hassan Rouhani ha investito tutto sull’accordo sul nucleare: è attorno a quello che ha costruito la sua posizione politica che viene letta come quella di un moderato (termine su cui non si può prescindere dall’accezione iraniana). Con l’intesa Rouhani avrebbe permesso la riapertura di canali economico-commerciali importantissimi che avrebbero portato prosperità a Teheran e obliterato le posizioni ultra conservatrici che vedevano nell’accordo con Washington, “il Grande Satana”, e nel dialogo con l’Occidente un tradimento dei principi della Rivoluzione islamica che ha fondato il paese moderno.
“MORTE ALL’AMERICA”
Se l’Iran Deal smotta a causa delle destabilizzazioni americane e dell’incapacità delle altre controparti (Onu, Unione Europea, Russia e Cina) di tener vivo il Deal, i falchi iraniani possono tornare a battere cassa e a ripopolare il proprio consenso – che in questi ultimi anni è via via diminuito. Lo slogan “Morte all’America” è tornato nelle piazze in questi ultimi giorni, mentre generali dal forte ruolo politico, come Yadollah Javani delle Guardie della Rivoluzione, hanno fatto sentire la propria voce con minacce e posture dure in rappresaglia a Washington. Gli Usa lo scorso mese hanno designato le Guardie come gruppo terroristico.
Per il momento si tratta di retorica e propaganda, finalizzata all’acquisizione di quel consenso necessario a queste parti politiche per sopravvivere, ma se la situazione dovesse spingersi oltre non è chiaro comprendere quanto sarà capace il governo moderato di tenere sotto controllo la situazione, prima che la dialettica diventi azione politica-militare. Ieri, il ministro degli Esteri, Javad Zarif ha detto che nell’amministrazione americana c’è una “squadra B che pianifica un incidente in qualsiasi parte della regione” per provocare l’Iran e portarlo a una guerra.
Pompeo, considerato uno dei più severi con l’Iran, ha più volte dichiarato che gli Stati Uniti non stanno cercando azioni militari – “not seeking war“ è l’espressione che con diverse coniugazioni è girata spesso nelle dichiarazioni da Washington – ma intanto gli spostamenti militari sono intensissimi.
GLI SPOSTAMENTI MILITARI
Dalla portaerei Lincoln col suo gruppo da battaglia, ai B-52 inviati nel Golfo, ai mezzi anfibi con sopra le unità d’assalto dei Marines: ieri si è aggiunta anche una nuova batteria di missili Patriot. Molte di queste sono operazioni di routine, movimenti con cui gli Stati Uniti programmano tour in diverse aree del mondo per far sentire la propria presenza anche nell’ottica di creare la necessaria deterrenza davanti a chi intende creare posizioni egemoniche. Alcuni spostamenti però sono stati anticipati perché, come ha detto ieri un funzionario senior del Pentagono all’altrettanto senior corrispondente dalla Difesa della CNN, Barbara Starr, la minaccia iraniana “è ancora reale e credibile e noi la prendiamo seriamente”, i Patriot vengono inviati “per natura difensiva”, dato che ci sarebbero navi iraniane civili, “caricate di potenziale hardware militare inclusi missili”. Per il Pentagono, la minaccia che l’Iran avrebbe aumentato in questi giorni contro gli Stati Uniti e loro alleati – motivo di questo dispiegamento militare – arriverebbe sia dalla terra (attraverso i gruppi armati collegati in Libano, Siria, Yemen, Iraq), sia dal mare, all’interno di un bacino ristrettissimo come il Golfo Persico, zeppo di rotte nevralgiche commerciali.
Zarif teme l’incidente, e sa che il rischio è maggiorato perché all’interno del suo paese anche c’è una squadra B che recupererebbe terreno attraverso un conflitto di bassa intensità con gli Stati Uniti. Ieri l’Ayatollah Tabatabai-Nejad in un sermone dalla città di Isfahan, nell’Iran centrale, ha detto che “la loro (degli americani, ndr) flotta miliardaria può essere distrutta con un solo missile”. Dichiarazioni subito riprese dai media più conservatori che potrebbero arrivare alle orecchie di qualche leader miliziano in Libano o altrove e portarlo a decisioni avventate che potrebbero aprire le porte per il disastro.