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Ventotene non è Roma: l’Europa a un bivio

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Il processo di integrazione europeo, nella sua genesi e nel suo sviluppo (un contratto a formazione progressiva, potremmo dire) ha realizzato il mercato comune mirando anzitutto ad una unione economica, poggiata sulle 4 libertà fondamentali previste dal Trattato di Roma (libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali) e sulla disciplina della concorrenza nonché sulla limitazione degli aiuti di Stato alle imprese.

Con i Trattati di Maastricht (1992) e di Amsterdam (1999) si sono poi poste le basi, i pilastri su cui poggia l’architrave dell’Unione Europea: la disciplina delle istituzioni economiche, della politica estera e di sicurezza comune ed infine la giustizia e gli affari interni. È negli anni appena successivi e fino alla crisi finanziaria del 2007-2008 che si dà il via a un processo di “razionalizzazione” (come ha ben scritto recentemente Corrado Ocone richiamando Michael Oakeshott) decisamente ordinatorio, caratterizzato da una “alluvione legislativa” all’insegna di omogeneizzazione e armonizzazione legislativa.
Sono anni di grande fermento (vissuti intensamente da chi scrive, in Olanda prima e in Belgio poi) a tratti davvero esaltanti.

Oggi, a poco meno di una settimana dalle elezioni del Parlamento Europeo, sorge spontanea la domanda: soffia ancora lo spirito dei padri fondatori nell’Europa odierna? Cosa è cambiato e perché? Perché nella guida a trazione franco-tedesca dell’Unione non riusciamo a scorgere la visione e la consapevolezza di De Gasperi, Adenauer, Schumann? Perché si fa così spesso ricorso al famoso Manifesto di Ventotene, tanto che nel 2016, dopo il voto su Brexit, i leaders Renzi, Merkel ed Hollande si incontrarono in questa isola a riconfermare il progetto europeo? Il progetto vuole un’Europa governata da un’élite, senza mandato popolare, governata da burocrati e lobbies, dove il Parlamento Europeo conta poco e dove il governo è composto da soggetti cooptati (Commissione Europea). A chi piace ancora questa Europa così maltrattata?

Perché chi obbietta a questo europeismo di maniera rientra nella categoria di “populista” e si trova improvvisamente catapultato in un dibattito annacquato? Il Manifesto di Ventotene, sottoscritto da Altiero Spinelli, Rossi e Colorni risale a 16 anni prima della firma dei Trattati di Roma (1941!), e tuttavia viene spesso richiamato come documento fondativo.
Vediamone i tratti essenziali.

Lo spartiacque che Ventotene identifica ai fini della costruzione di un nuova società e di una nuova politica, è fra coloro che da una parte concepiscono le forme del potere politico nazionale, e che faranno il gioco delle forze reazionarie (di questa schiera fanno parte le dinastie, quale “serio ostacolo alla organizzazione razionale degli Stati Uniti d’Europa”, tutte le forze conservatrici impersonate da dirigenti e quadri delle istituzioni, monarchie, gruppi del capitalismo monopolista, proprietari fondiari, alte gerarchie ecclesiastiche, e per finire preti che tengono docili le masse), e dall’altra parte coloro che assumono come compito precipuo la creazione di un solido e monolitico stato improntato all’unità internazionale.

Si può affermare senza troppe incertezze che il Manifesto abbia anticipato di ben trent’anni Henry Kissinger e il suo New World Order (v. l’auspicio di una “unità politica dell’intero globo”, par. 2 del Manifesto), affermando un progetto centralista guidato da paesi leaders (pur alludendo a federalismi di dubbia sostanza), piuttosto che proporre una seria riflessione sulle modalità più idonee per la costruzione di un progetto europeo condiviso, a formazione progressiva e rispettoso delle specificità di ciascun Stato aderente.

Lo spirito rivoluzionario e progressista del Manifesto è esplicito, nella misura in cui invoca una rivoluzione europea contro le vecchie istituzioni conservatrici (attraverso un partito rivoluzionario), per rispondere alle esigenze di libertà (ahinoi, l’abbinamento con le dottrine progressiste e marxiste è quantomeno curioso) attraverso il socialismo, così da ottenere l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita.

Il punto più alto di pregnanza ideologica viene toccato con l’affermazione della necessità di abolire la proprietà privata, di procedere alle nazionalizzazioni, di limitare la Chiesa Cattolica attraverso l’abolizione del Concordato e l’affermazione dello stato puramente laico, ed infine di fissare in modo inequivocabile la supremazia dello stato sulla vita civile. Se non si volevano lasciare sospetti interpretativi sulla natura del Manifesto, i firmatari ci sono riusciti egregiamente. Invocare un male diverso (il comunismo) per rimediare a un male attuale (allora: il nazionalsocialismo) non corrisponde esattamente ai presupposti della nascita della CEE e della CECA. Il rancore che imperversa nel Manifesto, più che riportarci ai nobili intenti dei padri fondatori, richiama alla memoria il monito di quel grande maestro che è il Prof. Plinio Corrêa de Oliveira, quando parlava dei pericoli della quarta rivoluzione in quel magnifico manuale che è “Rivoluzione e Contro-Rivoluzione”.

Si può immaginare quale tipo di reazione un lettore attento abbia avuto quando Renzi, Merkel e Hollande si sono incontrati su questa isola in un summit dalla simbologia piuttosto evidente. Avrà l’Italia ricevuto ordini, all’insegna del centralismo promosso da Ventotene? Visti gli accadimenti degli ultimi anni, tutto è possibile.
Cosa occorre fare, dunque?

Riporre anzitutto il Manifesto di Ventotene nel cassetto dei ricordi di ideologi rivoluzionari. In secondo luogo, mettere in moto quei processi modificativi delle strutture (e dei Trattati), che negli anni hanno subito dei cambi di direzione o in casi peggiori degli snaturamenti, da parte di un establishment non sempre adeguato e drammaticamente lontano dai padri fondatori.

In terzo luogo, valorizzare gli strumenti di formazione a disposizione: l’Erasmus, per esempio, rappresenta un’opportunità culturale, relazionale, educativa eccellente sotto tutti gli aspetti. Gli scambi universitari in genere sono un’inestimabile ricchezza su cui investire, oggi più che mai.

Il voto di domenica prossima dovrà pertanto esprimere quale architettura di Europa si voglia perseguire: un’Unione improntata sul principio di sussidiarietà (attribuzione delle competenze in ordine gerarchico ai comuni, indi alle province, alle regioni e quindi allo stato) e rispettosa delle specificità di ciascuno Stato Membro (il disegno dei padri fondatori, ma anche il discorso di Margaret Thatcher a Bruges nel 1988) oppure una Unione monolitica, centralizzata e burocratica appoggiata su un’asse preferenziale che tenta con tutti i mezzi di autopreservarsi (la weberiana “gabbia d’acciaio”).


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