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5G, intelligenza artificiale e infrastrutture. La Cina cerca la via orientale per entrare in Europa

“La Cina è pronta a collaborare con i paesi dell’Europa centrale e orientale per allineare ulteriormente le loro strategie e piani di sviluppo, ampliare i legami commerciali, approfondire gli investimenti e la capacità di cooperazione e accelerare la connettività delle infrastrutture, per espandere e approfondire continuamente una cooperazione pragmatica”. È il messaggio centrale che il governo cinese – per bocca del vicepremier, Hu Chunhua – ha lanciato dal China-Central & Eastern European Countries (Ceec) Expo.

IL CEEC EXPO

Il forum – che ha riguardato svariati settori, dal 5G negli ambiti della produzione automatizzata e dell’intelligence artificiale, fino ai progetti infrastrutturali — è uno dei piani di “espansione senza riserve dell’apertura al mondo cinese”, come dice Hu, perché il Ceec, noto anche come “16+1” è un progetto di cooperazione economico-commerciale dall’importante valore geopolitico, tramite il quale Pechino cerca di spostare verso di sé l’asse di orientamento di sedici paesi europei (undici di questi membri Ue). Il piano strategico è parte dell’integrazione del territorio eurasiatico nel macro-progetto Bri – la Belt & Road Initiative, la Nuova Via della Seta, l’infrastruttura geopolitica per collegare Pechino all’Europa. Sebbene ultimamente abbia mostrato le sue criticità, e – al di là delle dichiarazioni di rito e delle relazioni propagandistiche cinesi – stia riscontrando qualche rallentamento anche tra i paesi europei, Bruxelles continua a considerare il progetto un elemento critico, perché teme che i partner europei cinesi possano essere influenzati politicamente dagli accordi, e agire sotto le pressioni di Pechino.

IL PIATTO È RICCO

Anche perché la Cina può esercitare leve di carattere economico: da quando il meccanismo di cooperazione è in piedi (2009) il commercio tra Cee e Cina è aumentato di oltre l’80 per cento – nel 2015 ha raggiunto la soglia dei 100 miliardi di dollari, target stabilito nel 2012. Secondo il ministero del Commercio cinese l’interscambio ha toccato i 28,5 miliardi di dollari nel primo quadrimestre di quest’anno, segnando una crescita del 7,9 per cento rispetto al 2018. Gli investimenti cinesi nella regione europea sono quadruplicati nei primi cinque anni, ma hanno prodotto squilibri. Sei paesi ricevono quasi la totalità degli investimenti, e la crescita commerciale riguarda soprattutto Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia e Romania; gli altri si dividono la minoranza degli effetti positivi.

DIVIDI ET IMPERA

Secondo un’analisi dell’European Council on Foreign Relations uscita due anni fa, il problema di queste discrepanze è legato alle differenze nelle economie interne e in alcuni stati da vincoli imposti dall’Ue. Questa situazione genera frustrazione a Pechino – che vorrebbe spingere di più il suo progetto ma trova l’ombrello protettivo di Bruxelles – ma soprattutto all’interno di quei paesi europei, che vedono la crescita limitata per via dei paletti Ue. E questo dà spazi di manovra politica alla Cina. L’Unione europea ha infatti più volte espresso le proprie preoccupazione per il piano cinese, perché viene visto come un progetto “dividi et impera” con cui disarticolare parte del processo d’integrazione offrendo contributi economici nel tentativo di minare i rapporti con le istituzioni comunitarie o le politiche dell’Ue.

ESEMPIO: BUDAPEST E IL MAR CINESE

Per esempio: nel 2016 l’Ungheria, uno dei paesi che più ha goduto del Ceec, ha creato un fronte interno all’Unione per evitare di inserire la parola “Cina”, e responsabilità annesse, su una dichiarazione riguardante rischi e preoccupazioni che Bruxelles ha espresso sul Mar Cinese, un quadrante delicatissimo su cui Pechino rivendica sovranità in concorrenza con altri paesi mentre si esercita da grande potenza forzando la mano. Pechino sa che se Bruxelles è forte e compatta diventa uno scoglio duro con cui trattare, ma divise, le singole nazioni sono notevolmente più gestibili. Sebbene dei segnali iniziano ad arrivare.

IL DISIMPEGNO POLACCO

Non ci sono infatti soltanto questioni di discrepanze nel godimento degli effetti economici alla base del generale allentamento del progetto 16+1. La Polonia è un interessante esempio di questo. Varsavia è stato uno dei maggiori beneficiari del sistema promosso dalla Cina, ma negli ultimi due anni ha iniziato a sganciarsi per tre ragioni. Primo, l’entrata in scena di Donald Trump, che ha polarizzato il rapporto con la Cina – con cui ha ingaggiato una competizione strategica globale – come un pro o contro gli Usa, e su questo il governo polacco ha scelto Washington (che concede spazi economici-commerciali ai suoi partner, ma non accetta scarrellamenti politici). Secondo, l’allineamento Cina-Russia: Varsavia soffre le influenze di Mosca come pochi altri paesi in Europa, e per questo vede nella nuova bromance tra super-potenze (celebrata anche pochi giorni fa da Vladimir Putin e Xi Jinping) un elemento di avversione. Terzo, sullo stesso stile, il corteggiamento cinese alla Germania. Secondo un’analisi della Jamestown Foundation, il disimpegno della Polonia dalla Cina “avrà probabilmente un impatto significativo sul futuro dell’iniziativa 16 + 1”.

(Foto: una macchina per pulizie industriali robotizzata gestita tramite 5G presentata al CEEC Expo)

 



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