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La Big Picture dietro lo scontro commerciale Usa-Cina

Pochi giorni fa, il presidente statunitense Donald Trump, in risposta a quello che ha considerato un atteggiamento poco conciliatorio da parte di Pechino, ha voltato pagina e deciso che dal primo giugno gli Stati Uniti sarebbero entrati in vigore nuovi i dazi su oltre duecento miliardi di dollari di importazioni dalla Cina portando l’’aliquota al 25 per cento (prima era al 10).

IL COLPO E LA CONTROMOSSA

Se precedentemente le tariffe rappresentavano un sovrapprezzo su prodotti e macchinari industriali, oggi andranno a colpire beni di consumo, come smartphones, laptops, giocattoli, cibo. Pechino, tramite la commissione sulle tariffe doganali del Consiglio di Stato, ha risposto imponendo dazi su 110 miliardi di dollari di merci importate dagli States, di cui una parte con un’aliquota al 25 per cento (50 miliardi) e il restante al 19. Trump, in una serie di tweet, ha detto che “comprare in Cina sarà veramente troppo caro d’ora in avanti….eravamo vicino a concludere un grande accordo e vi siete tirati indietro!”.

“Il mercato americano e quello cinese hanno subito prezzato il sentiment negativo degli investitori a seguito dell’interruzione dei colloqui, con sell-off generalizzati nei mercati azionari e correzioni maggiori del -2 per cento”, dice Lorenzo Carrieri, policy and economic analyst. “Trump, in una serie di tweet successivi, è arrivato a sostenere che i cinesi proveranno a rispondere con manovre espansive per abbassare i tassi d’interesse (facilitando così un accesso al credito, come ha effettivamente fatto la Banca Centrale Cinese tagliando il coefficiente di riserva obbligatoria) e ha anche asserito che un intervento più deciso della FED (un taglio ai Fed Funds Rate, il costo del denaro che le varie banche applicano quando si prestano moneta l’una con l’altra overnight) rappresenterebbe un game over per la Cina”.

LO SCONTRO (NON SOLO COMMERCIALE)

È notizia di pochi giorni fa che Trump ha messo al bando l’utilizzo di apparecchiature e servizi Ict prodotti da Stati stranieri da parte di aziende americane, mirando con questa decisione a colpire il colosso delle telecomunicazioni cinese Huawei. La stessa Huawei è stata inserita nella dal Dipartimento del Commercio americano nella “Entity List”, una specie di lista nera di società straniere a cui le aziende americane non possono vendere prodotti tecnologici senza prima un lasciapassare delle autorità: così Intel, Qualcomm e Broadcomm hanno interrotto le forniture per la supply chain di Huawei.

Nel frattempo, oggi Google, sempre su “pressione” dell’amministrazione Trump, ha deciso di sospendere la licenza di Huawei per l’utilizzo del sistema operativo Android. “Un duro colpo per il colosso cinese che punta a scoraggiare i suoi affari e la sua penetrazione almeno nel mercato statunitense – spiega Carrieri – dopo che gli alleati storici degli States, gli europei, hanno declinato l’invito a seguire la stessa strada, ma anche e soprattutto un monito alla Cina nella guerra tecnologica per il controllo dell’infrastruttura delle telecomunicazioni futura del 5G.

BIG PICTURE

Nonostante i toni infuocati, e l’escalation Huawei vs Google, alcune indiscrezioni di diversi analisti parlano di negoziati che continuano ad oltranza dietro le quinte di questa guerra di attrizione, però. “Quella di Trump mi pare essere una strategia negoziale di rischio calcolato più che una presa di posizione decisa e ferma contro un accordo. Però temo abbia basi deboli”,  aggiunge Carrieri. Perché? “Il fondamento logico dietro il ragionamento trumpiano è il seguente: rendere più cari i prodotti importati dalla Cina in maniera tale da stimolare la domanda aggregata americana e spostare il consumo verso beni prodotti localmente, così da innalzare i salari nei settori più colpiti dalla concorrenza cinese e ridurre il deficit commerciale verso Pechino. Ma la fallacia del ragionamento è palese perché  in un’economia altamente integrata come quella americana i beni cinesi sovrapprezzati dalle tariffe non per forza sono replicabili solo da prodotti americani: al contrario, il protezionismo nei confronti della Cina potrebbe avere come risultato una maggiore richiesta di beni esteri con caratteristiche simili a quelli cinesi”.

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