Gli Stati Uniti “onorano l’eroico movimento di protesta del popolo cinese” e invitano il governo di Pechino “a rendere completamente e pubblicamente conto di quelli uccisi o scomparsi per dare conforto alle molte vittime di questo oscuro capitolo della storia”. È questa la dichiarazione con cui il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha ricordato ieri il trentesimo anniversario della brutale soppressione delle proteste pacifiche di piazza Tienanmen e ha fatto infuriare la Cina. È stato “un affronto al popolo cinese e una grave violazione del diritto internazionale e delle norme di base che regolano le relazioni internazionali”, ha replicato il ministero degli Esteri di Pechino, esprimendo “forte insoddisfazione e ferma opposizione”.
ATTACCHI INTELLIGENTI
L’uscita di Pompeo è chirurgica. Gli Stati Uniti usano il ruolo di difensori internazionali dei diritti umani e civili come leva per pressare i cinesi all’interno dell’enorme confronto globale tra le prime due potenze economiche, militari, politiche del mondo. La dichiarazione su Piazza Tienanmen si inquadra all’interno di un pattern ampio e ben leggibile che passa dalle posizioni forti con cui il dipartimento di Stato accusa il governo cinese di pulizia etnica contro i musulmani dello Xinjiang, fino alle dimostrazioni di presenza – attraverso i passaggi in libera navigazione – tra le acque contese del Mar Cinese o lungo lo stretto di Taiwan. Dossier dove la politica, la geopolitica e i diritti si sovrappongono: distillato più alto dello scontro sul commercio che è uno sfogo di livello muscolare dello scontro.
IL CASO TAIWAN
Il ministero degli Esteri di Taiwan non a caso ieri ha rincarato la dose: “Confessare, scusarsi e non fare più del male. Lasciate liberi i cittadini cinesi” ha twittato l’account ufficiale in inglese ricordando quei fatti di trent’anni fa, con un occhio puntato alle dichiarazioni da Washington e un altro rivolto alle ultime uscite da Pechino. Il ministro della Difesa cinese ha ribadito la volontà di riannettere quella che considerano una provincia ribelle e di non aver abbandonato mai l’idea di farlo “risolutamente” con l’uso della forza. Il generale Wei Fenghe parlava – domenica scorsa – sotto i riflettori di un palco internazionale come quello della Conferenza sulla sicurezza che l’IISS organizza ogni anno a Singapore (lo “Shangri-La Dialogue”): toni edulcorati, ma messaggio chiaro, per incrociare Taipei e Washington. Dal 2016, quando si è insediata la presidente Tsai Ing-wen, le relazioni tra Cina e Taiwan si sono andate deteriorando, e da quanto Donald Trump è entrato alla Casa Bianca gli Stati Uniti hanno palesato la volontà di infilarsi nello spazio e divaricare le distanze.
L’INGAGGIO AMERICANO
Poco prima del cinese, dallo stesso palco di Singapore aveva parlato il capo del Pentagono facente funzione, Patrick Shanahan, definendo gli sforzi della Cina per rubare tecnologia da altre nazioni e militarizzare gli avamposti artificiali nel Mar Cinese Meridionale come un “kit di strumenti di coercizione” percepiti come atti ostili dagli Stati Uniti. È un punto fermo a Washington. Il Congresso, che è la componente più ideologizzata degli apparati americani, ha fatto segnare netto sostegno al presidente, approvando per esempio risoluzioni e mozioni pro-Taiwan (come la vendita di alcuni armamenti e l’apertura di nuovi canali diplomatici e commerciali) perché quello contro la Cina è un dossier che non trova divisioni tra le componenti del tessuto politico americano, che si parli di Taipei o del Mar Cinese, di furto di proprietà intellettuale o diritti umani nello Xinjiang.
LA MINACCIA DI PECHINO
“La Cina non attaccherà a meno di essere attaccata”, ha detto Wei, secondo cui Pechino e Washington comprendono bene che “il conflitto, o una guerra tra i due paesi, sarebbe un disastro per gli avversari e per il mondo intero”. Pechino chiede agli Stati Uniti di restare fuori da certe questioni, di non intromettersi nelle dispute territoriali così come su vicende interne che riguardano i diritti, mentre Washington usa certi terreni come proxy del confronto. I cinesi rivendicano il diritto di perseguire i propri interessi, gli americani usano i temi dei diritti per disturbare le attività cinesi – operazioni che trovano comunque una base veritiera, la Cina stressa il proprio lavoro su certi dossier anche oltre le regole e per questo gli Usa trovano spazi. Pechino ricambia usando altrettanto terreni ibridi di scontro legati a circostanze interne americane: la governativa Xinhua scrive che il ministero della Cultura e del Turismo cinese ha alzato un’allerta per i concittadini che viaggiavo negli Usa citando recenti sparatorie “frequenti”, rapine e furti come elementi di scarsa sicurezza che potrebbero mettere a rischio i turisti.