Se con la conferenza stampa di lunedì 3 giugno Giuseppe Conte si riprometteva di ricompattare un governo in crisi decisionale e di immagine mandando un segnale forte ai due vicepremier allora litiganti, il risultato ad una settimana esatta può dirsi raggiunto.
Quel che però il premier non aveva messo in conto è che la rappacificazione fra i due leader di maggioranza sarebbe avvenuta a suo discapito. Ecco, allora che, se Conte aveva pensato che dall’impasse si potesse uscire assegnando a se stesso un ruolo più forte, quello stesso previsto dalla Costituzione e dalla prassi consolidata (comunque un ruolo non fortissimo come in altri sistemi politici), oggi la sua posizione risulta al contrario alquanto indebolita.
Il messaggio che è arrivato nei giorni scorsi da Luigi Di Maio e Matteo Salvini è che Conte, almeno per ora (in politica poi tutto più cambiare) non sarà il decisore imparziale che aveva preteso di essere ma ancora e solo il “notaio verbalizzante” di decisioni prese per lo più altrove.
La questione che ha diviso Conte dai suoi vice, e che ha ricompattato questi due e il governo verso un obiettivo comune, è quella complicatissima dei rapporti con l’Europa: una partita che si apre ora e che, fra risposta alla lettera di Bruxelles sui conti e negoziazione interstatale per le nuove nomine, si preannuncia per l’Italia particolarmente difficile.
Se Conte aveva scelto per sé il ruolo di “voce unica” (o quasi) del governo in Europa, in previsione di una trattativa che doveva avere come fine ultimo quello di convincere la commissione a non bocciare la legge di bilancio italiana, Di Maio e Salvini hanno invece deciso che l’Italia non risponderà positivamente nella sostanza a nessuno di quelli che hanno giudicato come odiosi diktat. Non solo: hanno richiesto al premier di rimettere subito la delega sui rapporti con l’Ue che egli aveva conservato per sé dopo le dimissioni di Paolo Savona. Se a questo si aggiunge che allo stato attuale sembra che Giancarlo Giorgetti, l’“anticontiano” sottosegretario alla presidenza del Consiglio, sia il candidato più probabile a ricoprire la eventuale poltrona di commissario italiano in Europa, si può dire che il riequilibrio postelettorale delle due forze di governo sia avvenuto con una sostanziale delega di Di Maio alla Lega, e alla sua linea politica, della politica europea del governo. Ciò proprio mentre Conte aveva provato a far propria la strumentale politica filoeuropeista maturata dal Movimento in campagna elettorale, cercando anzi di “istituzionalizzarla” e renderla credibile.
L’errore del premier credo sia stato quello di aver sottovalutato, da una parte, l’estrema fluidità ideale di Di Maio, capace di passare dall’europeismo al suo contrario nel giro di poche ore, e, dall’altro, il fatto che il collante del governo è tanto forte per i suoi che lo avrebbe fatto tornare a più miti consigli e a stemperare le critiche, veramente esagerate, rivolte all’alleato in campagna elettorale. Un errore tanto più evidente quello del presidente del Consiglio se si pensa che egli non ha alle spalle voti e consensi e che spazio per governi tecnici oggi per fortuna in Italia non ce n’è più. Della sua razionalità e del suo realismo temperante, il governo ha però ancora estremamente bisogno, e questo dovrebbe essere a tutti chiaro.