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Chi boccia (e chi caldeggia) una digital tax per i giganti del Web

L’annuncio negli Usa dell’apertura di un’indagine sulla “concorrenza nel mercato digitale” e il dibattito in corso in sede G20 sulla cosiddetta digital tax stanno mettendo sotto pressione i big della Silicon Valley.
E se da un lato è unanime la consapevolezza di trovarsi davanti a un fenomeno nuovo, peculiare e che come tale andrebbe normato, dall’altro non tutti gli esperti sono però concordi sui modi (e sui tempi) con i quali bisognerebbe farlo. Formiche.net ne ha ascoltati alcuni.

TENERE CONTO DELLE DIFFERENZE

Con particolare riferimento al confronto interno agli Stati Uniti, in una recente intervista, Stefano da Empoli, economista e presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com), ha spiegato che “bisogna partire dall’assunto che le piattaforme online hanno caratteristiche diverse dalle altre imprese. Gli effetti di rete fanno sì che emergano piattaforme vincenti, selezionate dal mercato e dai consumatori. Chi si iscrive a Facebook, ad esempio, lo fa perché sa che può trovarci molti dei propri amici o conoscenti. Questa dinamica non può essere cambiata” da interventi esterni.
A detta dell’esperto, “è necessario ricordare alcuni elementi, ad esempio il fatto che queste imprese, questi mercati, sono altamente innovativi. Questo naturalmente non vuol dire che le istituzioni debbano rimanere passive. Tuttavia, prima di interventi”, ha aggiunto, soprattutto in relazione a eventuali azioni dell’antitrust, come ipotizzato recentemente negli Usa, “occorrerebbe chiedersi se sia davvero insufficiente l’azione delle autorità di regolamentazione e delle altre istituzioni preposte”. E, in ogni caso, bisognerebbe intervenire “senza soffocare questa carica innovativa, che è la vera ricchezza delle economie digitali.

UNA NUOVA ECONOMIA

Di diverso avviso Stefano Quintarelli, già parlamentare e esperto di digitale e nuove tecnologie, secondo il quale per il digitale “è necessario introdurre un nuovo tipo di tassazione, perché si tratta di un nuovo tipo di rendita. Questa necessità”, commenta a Formiche.net, “è stata ritardata perché la domanda di nuova regolamentazione è stata fino ad ora meno rilevante della volontà di tutela”. Secondo Quintarelli, che ha da poco pubblicato un nuovo libro dal titolo “Capitalismo immateriale” (Bollati Boringhieri editore), dedicato proprio a questo tema, “il tipo di rendita di un’azienda del web al momento è particolare, poiché non ci sono significativi investimenti in conto capitale, né altrettanti che possano essere considerati investimenti affossati, ci sono da costi variabili nulli e nel contempo essendo delocalizzati si sceglie a quale sistema fiscale rispondere. È una nuova modalità di produzione della ricchezza umana che va regolata”.

UN’ANSIA NON GIUSTIFICATA

Una posizione che sintetizza le precedenti è, infine, quella di Sergio Boccadutri, già deputato del Pd, esperto di innovazione e oggi direttore generale della Fondazione Luigi Einaudi, secondo il quale “l’economia digitale impone un ripensamento delle regole fiscali, senza dubbio, ma sono comunque decisioni che vanno prese in maniera condivisa”. Tuttavia, prima di procedere con una digital tax ci sono, secondo l’esperto, diversi aspetti da valutare.
“Il problema”, rimarca parlando con questa testata, “è che bisogna decidere se cambiare le regole o meno – cosa richiesta dal sistema internazionale – ma allo stesso tempo capire chi trae vantaggio dalla mancanza delle stesse. A livello fiscale il problema è la delocalizzazione delle sedi fiscali delle imprese, soprattutto quando non producono beni ma vendono servizi digitali, per questo è difficile delimitare i confini del digitale con una legge nazionale. Inoltre non ha senso agire facendo di tutta l’erba un fascio: le piattaforme digitali hanno delle loro caratteristiche peculiari, che non possono essere ignorate”.
Ma per Boccadutri, “il punto centrale è il metodo. L’importante è che tutti si assumano la responsabilità di decidere assieme e di fissare strategie condivise e coerenti con questo nuovo tipo di economia. Di certo”, evidenzia, “si tratta di un fenomeno nuovo e come tale va prima osservato e definito, quindi regolato, in particolare poiché ad oggi l’economia non è più legata solo al territorio, per questo si dovrebbe puntare su una normativa internazionale. Ma va fatto senza ansia, o si rischia di fare pasticci”.


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