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Così Erdogan prova a riaccendere la fiamma islamista in Egitto

Il presidente turco Recep Tayyp Erdoğan ha detto pubblicamente che l’ex capo di stato egiziano Mohammed Morsi non è morto per cause naturale come il Cairo ha riportato. Ufficialmente, uno dei principali leader della Fratellanza musulmana, salito al potere dopo le elezioni del 2012 che seguirono la Primavera Araba e destituito dal golpe militare di Abdel Fattah al Sisi nel 2013, sarebbe morto a causa di un attacco cardiaco. L’infarto lo ha stroncato proprio mentre era in aula, a processo accusato di reati gravi, dopo che il governo egiziano ha avviato una repressione spietata del movimento politico panarabo di cui è leader.

Erdoğan oggi ha accusato le autorità egiziane apertamente. Ha detto che Morsi quando è stato colto da malore è caduto a terra e lì è rimasto senza soccorsi per oltre venti minuti. “Lo hanno ucciso […] non è morto per cause naturali”, ha aggiunto. All’alba di ieri l’ex presidente eletto egiziano è stato sepolto a Nasr City con un rito che diversi media governativi hanno messo sotto embargo. Il silenzio, come spiegava su queste colonne l’analista dell’Ispi Giuseppe Dentice, è un altro dei simboli dietro alla morte di Morsi, che segna la fine della stagione rivoluzionaria, pone quel ricordo nel cassetto e lo spedisce nel fondo delle memoria secondo la ricostruzione storiografica che il governo Sisi vuole.

La dichiarazione di Erdoğan, fatta durante una manifestazione elettorale a Istanbul, è propagandistica quanto forte, e segna ancora di più la spaccatura tra i due mondi interni al sunnismo. Il partito del presidente turco, l’Akp, è infatti un nuovo interprete della lettura dell’Islam politico della Fratellanza, di cui l’Egitto è invece un repressero feroce: molti leader egiziani dei Fratelli (che al Cairo avevano il loro centro nevralgico e culturale) anche per questa compiacenza si sono rifugiati in Turchia. La spaccatura all’interno della corrente maggioritaria dell’Islam è larga, e coinvolge dal lato anti-islamista egiziano (che ha in Sisi il proprio utile-eroe) Emirati Arabi e Arabia Saudita, sull’altro il Qatar. Non è un caso se media come il turco Anadolu o il qatarino al Jazeera siano stati tra i primi a diffondere la notizia su un report Onu che addossa a Riad le responsabilità per la morte del giornalista saudita Jamal Khashoggi.

Sullo sfondo dossier geopolitici di primo piano: per esempio lo scontro a cavallo del Nord Africa che trova terreno di sfocio in Libia, dove le fazioni universaliste appoggiano il Sisi libico, il signore della guerra delle Cirenaica (regione da sempre sotto l’influenza egiziana), ossia Khalifa Haftar, mentre diversi gruppi politici-combattenti della Tripolitania hanno legami di vario genere con la Fratellanza, e dunque con Turchia e Qatar. O ancora, nella crisi del Golfo, dove un blocco guidato da Riad e Abu Dhabi a giugno di due anni fa ha posto sotto isolamento il Qatar, che però andando avanti sotto le pressioni saudite potrebbe accettare di annacquare le simpatie per la Fratellanza secondo un pragmatismo collegato a interessi correnti e strategici nella regione (tutto anche sull’onda del confronto con l’Iran: i sauditi potrebbero accettare contatti dei qatarini con Teheran, legati alla gestione dei campi gasiferi, ma potrebbero chiedere in cambio di una riqualificazione l’abbandono dei Fratelli con l’atto fisico di consegnare i membri dell’organizzazione che hanno scelto di rifugiarsi nell’emirato).

Ankara e Doha, o meglio il loro ruolo nei confronti della Fratellanza musulmana, sono anche il simbolo di una debolezza del movimento. Come analizzato in un report redatto per l’Ispi dal ricercatore Matteo Colombo, la crescita di queste due realtà è avvenuta a discapito della Fratellanza, perché soprattutto Erdoğan è diventato la figura di riferimento dell’immaginario di chi sostiene l’Islam politico, a discapito del movimento. Il presidente turco “ha sfruttato questa popolarità per la sua politica estera nel mondo arabo” così come ha sfruttato l’offerta di ospitalità ai leader esiliati dall’Egitto, però sebbene così abbia “garantito la sopravvivenza dell’organizzazione”, questo ha anche “legato ancora di più il destino del gruppo a quello di un leader straniero”. Secondo l’analisi di Colombo, se il leader turco non fosse rieletto nei prossimi anni il sostegno di Ankara alla Fratellanza “probabilmente cesserebbe e ciò metterebbe a rischio la permanenza dei membri dei Fratelli Musulmani in Turchia”.

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