Si dice che la vecchiaia elimini gran parte dei freni psicologici. Si diventa più liberi. Soprattutto disinibiti. E si dà, quindi, libero sfogo al proprio pensiero ed alle proprie pulsioni, dopo anni trascorsi nel convogliarli lungo i rigidi binari delle regole diplomatiche. Speriamo che a Jean Claude Junker sia capitato qualcosa di simile, nella dura esternazione nei confronti dell’Italia. Non tanto perché anziano, seppur non proprio un giovanetto. Ma perché al termine di una lunga cartiera in cui il self-control è stato il vincolo maggiore al suo operare.
Si spiegherebbe allora perché, parlando dell’Italia, sostiene, sull’onda di un’euforia più collettiva, che l’Italia, appunto, “si sta muovendo in una direzione sbagliata, rischia di essere nei prossimi anni nella procedura per disavanzo eccessivi”. Se non proprio una sorta di ergastolo finanziario, almeno una lunga degenza in qualche casa di cura. Lo ha detto durante un dibattito, organizzato dal quotidiano Politico. Lo ha affermato quasi in contemporanea con le decisioni degli sherpa di Ecofin – i responsabili finanziari dei Paesi membri – che hanno condiviso la proposta, avanzata dalla Commissione europea, sui propositi di procedere con l’apertura della procedura d’infrazione nei confronti del governo gialloverde.
Ed infatti ha subito aggiunto: “Il problema italiano è un problema condiviso”. Salvo poi indorare la pillola: “Non voglio umiliare la Repubblica italiana perché ho il massimo rispetto per l’Italia. Abbiamo detto chiaramente che pensiamo che l’Italia si stia muovendo in una direzione instabile e abbiamo dovuto prendere decisioni in proposito”. Dove quel plurale maiestatico riflette l’avallo appena ottenuto dall’eurogruppo alle proposte della Commissione. Subito recepito dai mercati. In apertura di seduta gli spread sono cresciuti di oltre tre punti percentuali.
È un pensiero condivisibile? La prima cosa che viene in mente è il diverso trattamento riservato alla Francia. Nei confronti di Parigi, nessun avvertimento esplicito. Sebbene dal 2008 in poi il suo deficit di Bilancio sia stato ben superiore non tanto ai parametri del Fiscal compact. Ma ben più alto del 3 per cento e, quindi, in rotta di collisione con le stesse regole di Maastricht. La sfida lanciata, in passato, da Matteo Renzi. Abortita prima di produrre un qualsiasi effetto. Quelli francesi sono stati, invece, dieci anni vissuti pericolosamente. Ma non hanno impedito loro di continuare a “sforare”: segno evidente che quel tentativo di ricondurre il “legno storto” della società francese ad un’astratta razionalità non ha funzionato.
Potrebbe produrre, per l’Italia, risultati diversi? Per fortuna non c’è alcuna guerra da combattere. Nessun esercito schierato per fermare l’avanzata nazista. Proporre quindi una politica di “lacrime e sangue” è solo un’inutile follia. L’Italia non deve solo rispettare regolette contabili – naturalmente anche quelle contano – ma, nell’attuale situazione, deve soprattutto crescere. Deve utilizzare al meglio le risorse di cui dispone. Provare a ridurre il tasso di disoccupazione e frenare l’emorragia dei movimenti migratori. Non alludiamo ai barconi dei disperati che sbarcano a Lampedusa. Ma a quel flusso continuo di meridionali che si spostano verso il Nord alla ricerca di un posto al sole. Quando va bene. Oppure sono costretti a prendere la via dell’estero. Nemmeno fossimo tornati ai tempi del “miracolo economico”. Allora giustificato dalle rovine della guerra. Oggi solo una inspiegabile idiozia.
Jean Claude Juncker dimostra, purtroppo, di avere la memoria corta. Non è stato forse lui a promuovere, svolgendo un ruolo di primo piano, il documento dei cinque presidenti (Donald Tusk, Jeroen Dijsselbloem, Mario Draghi e Martin Schulz) “Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa” del luglio 2015? In quelle pagine si trova la soluzione al caso italiano quando si afferma testualmente “la procedura per gli squilibri macroeconomici dovrebbe anche promuovere riforme adeguate nei paesi che accumulano in modo persistente consistenti avanzi delle partite correnti, se detti avanzi sono dovuti, ad esempio, all’insufficienza della domanda interna e/o ad un basso potenziale di crescita”. Ipotesi che, nelle condizioni attuali, di eccesso di risparmio, di bassa crescita e di ristagno della domanda interna, esclude qualsiasi ulteriore spinta deflattiva. Mentre legittima l’esigenza di maggiori investimenti e riduzione del carico fiscale.
Dimenticare impegni così solennemente annunciati significa colpire al cuore l’idea stessa dell’Europa, nata per far “convergere” tutte le economie verso un maggior livello di benessere sociale. E non abbandonare al proprio destino Paesi importanti come l’Italia, la cui crisi eventuale potrebbe avere conseguenze di carattere sistemico. Ci vuole, quindi, grande senso di responsabilità nel non anticipare giudizi che dovranno essere oggetto di uno specifico negoziato. C’è quasi un mese di tempo, prima che l’Ecofin di luglio decida in proposito. In questo intervallo deve svilupparsi un negoziato esente da pregiudizi. Per concordare quale debba essere la strada da seguire, tenendo conto dei fallimenti del passato.
La teoria dei “compiti a casa”, inventata da Helmut Kohl, in occasione della nascita dell’euro – la sua reprimenda contro Romano Prodi – e poi fatta propria da alcuni presidenti del Consiglio italiani, non ha prodotto i risultati sperati. Il debito pubblico italiano è debordato, il tasso di crescita si è ridotto ai minimi termini. L’Italia, insieme, alla Grecia è l’unico Paese europeo che non ha ancora raggiunto i livelli di benessere del 2007. Ci sarà pure una ragione perché questo è avvenuto. E non bastano i pentimenti postumi dello stesso Juncker nei confronti di Atene. Egli ha a sua disposizione una struttura tecnica imponente, finanziata anche con i soldi italiani. La metta al lavoro. Invece di produrre intempestive esternazioni.