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Decreto crescita, Arcelor Mittal e lo scontro dietro le quinte

Come era già stato anticipato informalmente da ambienti della Federacciai, Arcelor Mittal Italia ieri ha ufficializzato le sue riserve su un punto specifico del decreto crescita, ovvero l’articolo 46 che interviene sulla disposizione (comma 6 dell’articolo 2) del decreto legge del gennaio 2015 che escludeva la responsabilità penale e amministrativa del Commissario straordinario, dell’affittuario o acquirente (in questo caso Arcelor Mittal) dell’Ilva per il periodo del completamento delle misure previste dall’Aia, concomitante con l’ultimazione da parte della stessa Arcelor del Piano ambientale avente scadenza il 23 agosto del 2023.

LO STALLO ATTUALE

Nell’impostazione governativa la vigenza di tali tutele legali verrebbe limitata al prossimo 6 settembre, ma così – lamenta Arcelor – si pregiudicherebbe l’attuazione del già richiamato Piano ambientale perché verrebbero meno proprio quelle garanzie che erano state offerte dal governo e dal Parlamento italiani all’atto della gara per la vendita del Gruppo Ilva, poi aggiudicata ad Arcelor. Quest’ultima pertanto ritiene, e lo ha ribadito con fermezza, che tali tutele debbano restare in vigore fino a quando non sarà completato il Piano ambientale per evitare di incorrere in responsabilità relative a problematiche che gli attuali gestori non hanno causato.

Il ministro Di Maio si è detto “sorpreso” della posizione assunta dalla nuova gestione – che al momento ha in affitto il ramo d’azienda, ma non lo ha ancora acquistato come pure stabilito dal contratto – perché sin dal febbraio scorso era stata informata Arcelor della possibile revoca della immunità penale introdotta nel decreto crescita, alla luce della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Gip di Taranto e della sentenza adottata nel gennaio 2019 dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo di condanna dell’Italia sempre sulla vicenda Ilva. Il Mise – nel suo comunicato – ha sostenuto che si era già rappresentata ad Arcelor la necessità di individuare una soluzione equilibrata volta alla salvaguardia dello stabilimento e della sua occupazione diretta e indotta e al contempo al rispetto della decisione adottata dai giudici.

Pertanto le parti, par di capire, starebbero lavorando per addivenire ad una soluzione equilibrata che avrebbe indotto la nuova gestione ad esprimere “l’auspicio che venga ripristinata la certezza del diritto nell’interesse dell’intero contesto economico italiano e degli stakeholder permettendo così ad Arcelor Mittal Italia di continuare a gestire lo stabilimento e a completare il piano di riqualificazione ambientale”.

LO SCONTRO POLITICO

Queste le dichiarazioni ufficiali delle parti, ma in realtà dietro le quinte governative e locali è in corso uno scontro durissimo fra chi come la Lega vorrebbe il rispetto degli accordi vigenti e chi invece, come settori del Movimento 5 Stelle, vorrebbero forzare il passo in direzione non solo della abolizione delle tutele legali esistenti, ma riaprire anche l’Aia come ha già annunciato il ministro dell’Ambiente Costa, introducendovi la Valutazione preventiva di impatto sanitario dell’esercizio della fabbrica che – com’è intuibile – aprirebbe dispute teologiche su come debbano essere interpretati sotto il profilo eziologico gli effetti sanitari della gestione del siderurgico.
Una parte del Movimento Cinque Stelle – che in campagna elettorale aveva detto esplicitamente a Taranto che in caso di vittoria avrebbe fatto chiudere l’intero stabilimento – da mesi è in difficoltà dopo l’accordo fra tutte le parti in causa del 6 settembre del 2018 che ha sancito il passaggio alla fase attuativa di quanto previsto dall’esito della gara per l’aggiudicazione del Gruppo.

Ora, ricordando che se malauguratamente chiudesse il Siderurgico di Taranto effetti devastanti si avrebbero per le sorti degli stabilimenti collegati a valle anche di Genova e Novi Ligure, la domanda più immediata che ci si pone dinanzi alle nuove circostanze è la seguente: cosa si vuole da parte di qualcuno che Arcelor getti la spugna? E per fare cosa poi? Per riassegnare la gestione del Gruppo ai Commissari ai quali si chiederebbe di indire un nuovo bando per la vendita del Gruppo stesso? O si punta a rinazionalizzare l’Ilva? Come sta accadendo al momento senza successo per l’Alitalia? O si punta – ma non si ha il coraggio di dirlo apertis verbis – alla dismissione pura e semplice dell’intero impianto del capoluogo ionico causando in tal modo una catastrofe economica senza precedenti nella storia economica dell’Italia nel secondo dopoguerra? E con quali risorse si riconvertirebbe l’economia dell’intera area ionica nella quale andrebbero creati in un lasso ragionevole di tempo almeno 20mila posti di lavoro aventi pari dignità retributiva di quella assicurata nello stabilimento e nel suo indotto? E a Genova e Novi Ligure cosa accadrebbe?

Insomma sino a che punto si spingerà l’irresponsabilità propagandistica dei piccoli demagoghi di provincia che da anni stanno soffiando sul fuoco per cercare di imporre in tutti i modi la chiusura della grande fabbrica? E l’Italia dovrebbe perdere così il primo fornitore di acciaio per la sua industria meccanica, restando comunque il 2° Paese manifatturiero d’Europa per valore aggiunto? E nessuno pensa ai danni gravissimi anche in termini di gravi patologie psicologiche, depressioni, deprivazioni, umiliazioni con pesantissime conseguenze sociosanitarie che colpirebbero coloro che venissero privati del lavoro vivendo di un sussidio pubblico?

E il Pd di Nicola Zingaretti – che vorrebbe tornare fra gli operai – non ha nulla da dire al riguardo? E Landini, già segretario nazionale dei metalmeccanici, ora tace?



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