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Infrastrutture, l’Italia non resti indietro. Lo studio Deloitte

“L’Italia ha un forte deficit infrastrutturale che costa al Paese 70 miliardi di euro solo in esportazioni e che vale circa 4 punti percentuali di Pil”. Queste le parole di Paolo Boccardelli, direttore della Luiss Business School durante l’incontro “Sistema Italia. Gli investimenti infrastrutturali”, organizzato a Villa Blanc e moderato da Sarah Varetto in occasione della presentazione dello studio “La remunerazione degli investimenti infrastrutturali come fattore-chiave per il rilancio del Sistema Italia”.

L’INDAGINE DI DELOITTE

L’indagine, condotta da Marco Vulpiani di Deloitte con la review di Raffaele Oriani, professore della Luiss, dimostra come il capitale investito in opere infrastrutturali a partenariato pubblico-privato venga generalmente remunerato in tutti i settori considerati. “Gli investimenti di lungo termine in infrastrutture costituiscono un driver di crescita fondamentale per l’economia del Paese”, ha commentato Vulpiani, secondo cui restano fondamentali “forme adeguate e innovative di incentivazione agli investimenti del soggetto privato, senza le quali lo sviluppo infrastrutturale del Paese è inevitabilmente destinato al declino”.

Il gap infrastrutturale, però, non sembrerebbe legato alla disponibilità delle risorse, bensì al loro errato utilizzo. “Fino al 2007 abbiamo speso per le infrastrutture quasi il 3% del Pil ogni anno. Per fare un paragone, la Germania ne spendeva e ne spende solo 2, pur avendo maggiori disponibilità”, ha spiegato Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio sui Conti pubblici italiani. “Dopo il 2007 abbiamo tagliato la spesa abbondantemente sotto il 2%, ma il livello di spesa secondo me è sufficiente, è il modo in cui lo spendiamo ad essere sbagliato”.

GLI OSTACOLI AGLI INVESTIMENTI

Gli ostacoli agli investimenti infrastrutturali nel nostro Paese sono molti e diversificati, come ha spiegato Mario Antonio Scino, a capo del Dipe. “Uno dei problemi più importanti sono sicuramente le tempistiche troppo lunghe, ma contiamo di ridurle del 50%. C’è però un disallineamento tra spesa programmata e spesa effettiva che testimonia un’errata progettualità”, ha spiegato.

Della stessa opinione, il capo di Gabinetto del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti Gino Scaccia, che ha chiuso i lavori e che ha definito puntualmente le cause dell’inefficienza e dell’errata programmazione della realizzazione delle piccole e grandi opere in Italia. Fra questi, in primis, il venir meno delle risorse a causa del dilungamento dei tempi; i problemi legati a eventuali contenziosi; il fallimento delle imprese aggiudicatrici – e l’assenza di una disciplina di sostituzione automatica –; i blocchi amministrativi, la burocratizzazione e la mancanza di semplificazione.

Tra l’altro, com’è noto, sono molte le infrastrutture nazionali a non godere di un buono stato di salute. “In Italia l’età media delle condutture idriche è di 30-40 anni. Ciononostante, la spesa media per l’ammodernamento delle stesse si aggira sui 40 euro annui per abitante, quando la media europea si attesta intorno ai 90 euro”, ha spiegato Stefano Donnarumma, amministratore delegato di Acea. “Tra l’altro, un incremento degli investimenti nelle infrastrutture idriche avrebbe ampie ricadute occupazionali, arrivando a creare fino a 80mila posti di lavoro in più”.

PIÙ INVESTIMENTI

“L’Italia ha bisogno di investimenti anche e prevalentemente di ammodernamento”, ha fatto eco Roberta Neri, ad di Enav, la società che gestisce il traffico aereo in Italia. “Il gap cresce di anno in anno e ridurlo diventa sempre più difficile”. “L’Italia è fortemente indietro”, ha concordato Luisa Todini, presidente di Green Arrow Capital SGR. “Quando si parla di grandi opere ci si trova dopo decenni ancora a discutere di decisioni che sono già state prese”, ha aggiunto, con riferimento alla Tav.

Per uscire da questo immobilismo, hanno convenuto gli speaker, è fondamentale puntare sulle partnership pubblico-private. Anche queste, però, hanno le loro insidie, come ha specificato Carlo Cottarelli. “Bisogna puntare sulle ppp, ma con un’adeguata analisi dei rischi, anche i più nascosti, ed è necessario che gli stessi siano condivisi con l’opinione pubblica”, ha rammentato. “La trasparenza diventa un criterio essenziale”. Della stessa opinione, il capo del Dipe, secondo cui “i partenariati pubblico-privati vanno controllati e gestiti in maniera consapevole”. “Siamo convinti che il sistema delle ppp sia virtuoso, ma necessità che tutti gli attori coinvolti non solo colgano non le opportunità, ma si assumano anche le responsabilità verso la società civile e le comunità locali”, ha rimarcato invece il neo amministratore delegato di Deloitte Italia, Fabio Pompei.

“Bisogna anche ricordare, però, che gli organici devono essere messi nelle condizioni di lavorare efficacemente”, ha suggerito Scaccia, puntando il dito contro la spending review. “Tra tagli e accorpamenti le persone sono passate da 30mila a 6mila. Efficientare si può, ma vi sono dei limiti strutturali legati al personale che non possono essere colmati solo con l’efficientamento delle risorse disponibili”.

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