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Perché l’interesse nazionale è la bussola dell’Italia. Lo spiega Aresu

Negli anni ’90 e poi anche dopo, agli inizi del 2000, c’era addirittura chi ne aveva prematuramente preconizzato la fine, in ossequio all’idea che la globalizzazione, in modo progressivo ma inesorabile, avrebbe reso sempre meno rilevanti gli Stati. Così non è stato, ovviamente. Anzi. Le nazioni sono ancora qui, più forti di prima – anche in un continente come l’Europa dove in molti scommettevano sull’inevitabile processo che avrebbe condotto in tempi brevissimi le istituzioni comunitarie a primeggiare definitivamente sui Paesi membri – con i loro rispettivi interessi nazionali. Un concetto, quest’ultimo, che l’Italia ha spesso faticato a promuovere ma che oggi è urgente definire visto anche il suo peso, di nuovo crescente, nelle agende dei governi e nel dibattito pubblico internazionale. Esigenza cui cerca di rispondere il recente libro dal titolo “L’interesse nazionale: la bussola dell’Italia”, edito da Il Mulino nella collana Arel e scritto a quattro mani dall’analista e consigliere scientifico di Limes Alessandro Aresu e dal diplomatico e saggista Luca Gori. “Interesse nazionale è un’espressione che ciclicamente ritorna nel dibattito pubblico, nell’attualità molto più frequentemente di quanto non sia accaduto in ogni altra epoca storica repubblicana”, ha affermato in questa conversazione Aresu che lunedì prossimo presenterà il libro nella sede romana della Scuola di politiche di Enrico Letta insieme all’ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e Marco Meloni.

Un saggio che mette a fuoco le ragioni storiche, politiche e culturali che hanno reso così complesso il nostro rapporto con l’interesse nazionale e che analizza lo scenario di incertezza in cui l’Italia è chiamata oggi a difenderlo. Ma innanzitutto cosa si intende per interesse nazionale? “Nel nostro lavoro è fortemente legato al metodo della formazione delle decisioni e della capacità di pesarle e di individuare priorità per un Paese. L’interesse nazionale dipende da come uno Stato è in grado di guardarsi allo specchio e di individuare i suoi pregi e i suoi difetti in uno sguardo di lungo periodo”. Concetto che da un lato si lega alla continuità storica nella vicenda di un Paese e dall’altro si mette costantemente in gioco con le sfide della contemporaneità. “È come se fosse una cassetta degli attrezzi che viene utilizzata in modo coerente per poi navigare in uno scenario in relativo ma costante cambiamento”, ha sottolineato da questo punto di vista Aresu secondo cui le differenti fortune che l’idea stessa di interesse nazionale ha avuto nella nostra storia dipendono inevitabilmente dagli alti e bassi vissuti dal sentimento nazionale degli italiani nel corso del novecento: “La sua ridotta incidenza all’inizio dell’avventura repubblicana si può far risalire all’equazione tra la logica nazionale e il fascismo – con la rimozione di quest’ultimo nella dialettica politica – mentre in termini di pubblica amministrazione ci fu sostanziale continuità, com’era peraltro normale che fosse”. Senza contare quanto ha inciso in tal senso l’importanza soverchiante che i partiti politici hanno a lungo avuto nella vita pubblica del Paese: “L’ideologia del partito prevaleva. La repubblica era, a tutti gli effetti, una repubblica dei partiti. Così sono andati i primi decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale”. Quando peraltro – ha osservato Aresu – “nella ricostruzione italiana si poteva anche cogliere un impulso dell’interesse nazionale. Perché la ricostruzione economica era, appunto, una ricostruzione delle capacità industriali della nazione”.

Diverso il discorso per gli anni ’90 quando la sottovalutazione dell’interesse nazionale corrispose “a uno strabismo sul rilievo della nazione nel contesto geopolitico. Ovvero sull’illusione della scomparsa delle nazioni e dei loro conflitti”. Un abbaglio che nel nostro Paese è stato più intenso che altrove: “Un conto è quello che si dice nella teoria e tutt’altro quello che si fa nella pratica”. Ad esempio Aresu ha citato in tal senso l’ex presidente della Repubblica francese Francois Mitterand, a parole contro il nazionalismo, che però esercitava intensamente dal punto di vista economico e non solo: “La sua retorica e la sua realtà erano molto diverse mentre l’Italia nel passaggio storico determinato dalla fine della Guerra fredda non ha trovato un posto chiaro nel contesto mondiale ed europeo. Non abbiamo fatto alcun investimento rilevante sulla nostra capacità di costruire meccanismi decisionali per navigare in questo nuovo contesto, anche nel paesaggio europeo, che non è mai un luogo dove possa ‘cambiare tutto’, ma sempre uno spazio negoziale”. Nella convinzione, poi rivelatasi sbagliata, che le nazioni sarebbero scomparse come punto di riferimento dell’assetto internazionale: “Ciò non è avvenuto. In modo più profondo per lo sviluppo tecnologico, che aumenta invece di ridurre la presa degli Stati sulla sicurezza e diventa materia di conflitto per gli imperi. In modo più leggero, con un rinculo nazionalista in Europa, che probabilmente si percepisce maggiormente nei Paesi che avevano inseguito di più l’illusione post-nazionale”. Come appunto l’Italia, dove “dal 2017 l’espressione interesse nazionale è stata utilizzata molto più spesso che in passato e anche in termini trasversali da parte delle forze politiche”.

Anche se poi, per seguire il proprio interesse nazionale nella pratica, è necessaria una visione strategica di medio-lungo respiro di cui l’Italia spesso si è dimostrata sprovvista: “Se si pensa all’interesse nazionale in un contesto storico ampio, è necessario programmare e liberarsi dalle catene dell’attualità. Altrimenti ogni questione richiederebbe un cambio di prospettiva o di paradigma. E questo non è possibile perché un Paese deve mantenere la sua continuità. È essenziale per il suo funzionamento. Certi aspetti della politica di uno Stato non cambiano”. Come ad esempio l’ordinamento militare o la politica di sicurezza “che effettivamente devono avere una continuità maggiore”.

Ma allora è giusto ritenere che siano in fondo le alte burocrazie i veri custodi dell’interesse nazionale, tanto più in un Paese come l’Italia da sempre caratterizzato dall’instabilità dei governi e della politica? “Solo in parte a mio avviso, idealmente in un contesto democratico dovrebbero essere i cittadini. È ovvio che esiste una custodia del cosiddetto Stato profondo, se non si utilizza questo termine in senso dispregiativo ma per identificare l’amministrazione (un’amministrazione indebolita in gangli decisivi dalle ridotte assunzioni, ricordiamolo sempre). Se per interesse nazionale intendiamo il ritratto dell’Italia come metodo, inevitabilmente chiamiamo in causa i cittadini, i giornali, la politica culturale, il contesto della ricerca”. Insomma, non può essere identificato semplicemente con qualche unità della presidenza del Consiglio dei ministri: “Se ne darebbe una rappresentazione limitante che potrebbe contribuire a alimentare un corto circuito dal punto di vista sociale”.

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