“Gli eventi di queste ore si inseriscono nel quadro della più ampia partita tra Stati Uniti e Iran fatta di dimostrazioni di forza: gli Usa con le sanzioni introdotte via via nell’ultimo anno allo scopo di accrescere la pressione su Teheran e riportarla al tavolo negoziale per strappare un accordo migliore di quello chiuso da Obama; l’Iran con atti dimostrativi (l’attacco, sebbene ancora non confermato, alle petroliere, l’abbattimento del drone e l’imminente ripresa di parte del programma nucleare) allo scopo di far vedere a Washington che non intendono cedere alla pressione, e non accettano ultimatum”. Annalisa Perteghella, analista specializzata in Iran e Golfo dell’Ispi, traccia il contesto attorno agli eventi che escono dal Medio Oriente, tornato a essere il fronte più caldo del pianeta con il confronto tra Washington (e alleati) e Teheran.
IL QUADRO REGIONALE
“Il risultato è l’innalzamento della tensione, il deterioramento della già precaria sicurezza nella regione, e il possibile scoppio di una guerra: nulla su cui studiosi, esperti e gli stessi alleati degli Usa non avessero messo in guardia la Casa Bianca già un anno fa”, dice Perteghella. Per esempio, il governo di Baghdad ha chiesto di aumentare la sicurezza attorno alle principali basi dove sono acquartierate truppe occidentali nel paese, e alcune società americane di contractor hanno momentaneamente spostato il loro personale dagli edifici in cui era ospitati. Si teme che possano esserci ritorsioni da parte dei gruppi sciiti iracheni collegati ai Pasdaran, anche perché nell’ultima settimana per cinque volte ci sono stati lanci di razzi contro le strutture in cui sono di stanza anche truppe americane.
Azioni senza colpevole, però probabilmente riconducibili a gesti ispirati – o direttamente ordinati – dai Guardiani ai proxy locali. Gli Stati Uniti hanno ordinato alle compagnie aeree di evitare lo spazio aereo iraniano sulla zona di Hormuz, l’isola che dà il nome allo stretto nevralgico che strozza il Golfo, sopra al quale il drone è stato abbattuto, mentre quelle acque sono state recentemente protagonisti di episodi di guerra asimmetrica. Le compagnie petrolifere, ci dice una fonte impegnata nel business, hanno ricevuto stamattina un nuovo warning dalle società di assicurazione e sicurezza che le assistono dopo l’abbattimento del velivolo senza pilota americano: prima ce n’erano stati altri collegati ai sabotaggi.
In Siria e in Libano, dove ci sono le principali basi collegate ai Guardiani fuori dal territorio iraniano, è segnalata massima allerta fin da ieri sera, perché quegli avamposti strategici con cui i Pasdaran mantengono i contatti con i vettori politico- militari collegati – come Hezbollah – possono essere oggetto di attacchi improvvisi. Israele ha riunito il gabinetto di crisi per una riunione fiume nella notte. Gli iraniani starebbero pensando di spostare la logistica collegata al più importante terminal petrolifero del paese da Hormuz al mare davanti all’Oman, in un’area più tranquilla.
LE MOSSE DI TRUMP
Eppure abbiamo visto che il presidente statunitense Donald Trump ha annullato all’ultimo minuto un attacco aereo, e su questo ha spinto parte della sua narrazione. Un gesto distensivo che ci pone una domanda: ma a questo punto c’è un disinnesco possibile? “Ora in effetti il difficile è tornare indietro da questa situazione” dice Perteghella. “Il fatto – continua – che Trump abbia richiamato gli aerei già partiti per bombardare l’Iran in risposta all’abbattimento del drone fa presagire che gli Usa non vogliono una risposta militare. Sebbene alcuni come John Bolton (il consigliere per la Sicurezza nazionale, ndr) e Mike Pompeo (il segretario di Stato, ndr) premessero per questa opzione, Trump ha fortunatamente ascoltato chi invece lo metteva in guardia circa il fatto che se gli Stati Uniti avessero risposto militarmente, anche solo con un attacco mirato a una base di lancio missilistico iraniana, la partita non si sarebbe chiusa lì”.
Perché? “Beh, chiaro che l’Iran avrebbe risposto, probabilmente con attacchi a basi statunitensi in Medio Oriente, e da lì ci sarebbe stata l’escalation. Entrambe le parti quindi hanno tutto l’interesse a tornare di fatto al tavolo negoziale, devono però trovare il modo di farlo salvando la faccia”.
RED LINES E CONCESSIONI
Ed è Trump, secondo l’analista italiana, che “in modo particolare dovrà ingoiare il boccone più amaro, ovvero ammettere che la sua strategia non solo non ha funzionato, ma ha causato ancora più danni; dovrà pertanto allentare qualche sanzione venendo incontro alle richieste di Teheran, che in cambio potrebbe accettare di esprimere anche solo una disponibilità a discutere del proprio programma missilistico e dell’estensione temporale dei limiti del proprio programma nucleare”.
“Ovviamente – aggiunge – tutto ciò a patto che nelle prossime ore non accadano incidenti che facciano saltare il tavolo e costringere gli Usa a un’azione militare: una linea rossa americana di fronte alla quale Washington sarebbe obbligata a reagire è l’uccisione di soldati statunitensi nella regione. Credo che Teheran lo sappia bene e non volendo incorrere in questo scenario è stata bene attenta a scegliere i propri obiettivi; quando però la situazione è così tesa bastano semplici errori di calcolo o interventi di agenti provocatori per trascinare le parti in un confronto aperto”.
In questo quadro regionale delicatissimo, in cui l’equilibrio dell’intera impalcatura di sicurezza può smottare anche per azioni di un attore non-statale (esempio: uno dei razzi lanciati contro una caserma centra una camerata che ospita soldati americani e produce vittime), l’Eliseo s’è costruito il suo spazio e ha inviato a Teheran Emmanuel Bonne, consigliere diplomatico del presidente francese, già operativo in Iran e profondo conoscitore del Medio Oriente. Bonne, dice Parigi, è sul posto per rassicurare il governo iraniano che gli europei faranno parte delle fasi negoziali successive, ma ora serve la de-escalation per salvaguardare la precaria stabilità della regione.