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I mini-Bot della discordia: ma sono debito o bitcoin di carta?

Le ultime proposte della Lega sui mini-bot continuano a far discutere, generando un comprensibile imbarazzo. Al punto da costringere lo stesso Ministro dell’economia, Giovanni Tria, ad una netta presa di distanza. La proposta è ancora fumosa ed indeterminata, ma anche per questo, presta il fianco a critiche e sospetti. Che rimbalzano nelle sedi istituzionali e sono oggetto di duri attacchi da parte degli organi di stampa. L’accusa di Die Welt, il quotidiano tedesco, è che “l’Italia vuole scardinare l’Eurozona”. Non proprio il massimo nel momento in cui inizia una difficile partita con la Commissione europea.

Lo stesso Mario Draghi non sembra avere piena contezza di una proposta, che appare ancora allo stato embrionale. Quel giudizio – “sono illegali o aumentano il debito” – lascia intravedere una perplessità che nasce dalla fumosità di un’ipotesi, che gli stessi vertici della Lega, non sono in grado di precisare in tutte le sue implicazioni. “Non sono la Bibbia, ma una possibilità”: la risposta, che non spiega. Né basta teorizzare che non si è di fronte ad una moneta alternativa. Per replicare ai giovani di Confindustria, che avevano evocato il gioco del Monopoli.

A monte di tutto sono, ovviamente, i debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese. Quei ritardi, ai quali si è cercato inutilmente di porre rimedio, imponendo, per legge, tempi di pagamento accelerati. Che, nei fatti, non sono stati rispettati. Somme enormi che, secondo gli ultimi dati ammonterebbero ad oltre 30 miliardi e che costituiscono un debito sommerso. Non contabilizzato e quindi, ma solo apparentemente, inesistente. A fronte di questa grande massa di denaro, ci sono aziende che non possono pagare dipendenti e forniture. Ma che, il più delle volte, sono vessate da un’Erario che, quando si tratta di incassare, non ammette scuse.

Il problema quindi esiste. E già questo spiega la ricerca di possibili soluzioni alternative. Che, tuttavia, per essere efficaci, devono tener conto di tutte le possibili conseguenze. La prima ipotesi è che si tratti solo della contabilizzazione di un vecchio debito, che dà luogo all’emissione di nuovi titoli. Potrebbero essere a breve termine: ad esempio Bot a tre mesi. L’effetto sarebbe un aumento del debito di oltre 1,5 punti di Pil. Non certo una contromossa per scongiurare la ventilata procedura d’infrazione. Se questa dovesse, comunque, essere decisa, anche a prescindere, paradossalmente l’impatto sarebbe minore. Sforare di un punto o di due in questo caso conterebbe poco. Vi sarebbe comunque il vantaggio di una maggiore resilienza dell’economia reale.

Più complicata, invece, la seconda ipotesi: titoli emessi senza scadenza. Quindi: quasi-moneta. Non solo illegali, come dice Draghi. Ma forse del tutto inefficaci. Sarebbero una sorta di bitcoin cartacei. Quest’ultima è una criptovaluta che fa parte, seppur con molti limiti, ambiguità e possibilità di riciclaggi, del sistema dei pagamenti. Il suo principale inconveniente è la volatilità. Solo qualche mese fa (metà dicembre) un bitcoin valeva più di 16 mila euro. Oggi la sua quotazione è meno della metà: poco più di 7 mila euro.

La moneta può svolgere la sua funzione come mezzo di scambio, solo se viene accettata dal mercato. Altrimenti perde tutto il suo carisma e diventa un inutile ideogramma. In passato (fine alla fine della prima guerra mondiale) era strettamente legata all’oro, in un rapporto predeterminato. Si poteva stampare tanta carta moneta a seconda delle entità delle riserve possedute dalla Banca centrale. Ancora le vecchie lire, ad esempio, recavano la scritta “pagabile al portatore”. Significava l’impegno, per la verità solo teorico, di convertirle in oro, su semplice richiesta in uno sportello della Banca.

Quel legame si perse definitivamente nel 1971, quando Richard Nixon decise di sospendere la convertibilità del dollaro (35 dollari per oncia): fatto più simbolico che reale, dato che quel legame non esisteva più da tempo. Da allora le tradizionali funzioni della moneta furono garantite esclusivamente dalla credibilità dell’Istituto emittente e quindi dalla forza effettiva dello Stato, per conto del quale la Banca centrale, pur con tutte le garanzie di indipendenza, operava. Da quel momento il valore intrinseco della moneta divenne fluttuante, al variare di una congiuntura non solo economica, ma politica.

Torniamo ora ai mini-bot. Hanno, forse, questo retroterra? Ne dubitiamo fortemente. In Europa esiste un’unica moneta, in grado di rispondere alle attese del mercato. E questa moneta è l’euro. I suoi succedanei non possono sostituirlo, non avendo la stessa forza intrinseca. Difficile, quindi, che vengano accettati come normale mezzo di scambio. Non vi sarebbe, in questo caso, una domanda sufficiente in grado di compensare la relativa offerta. La cui velocità di circolazione sarebbe di gran lunga superiore, considerata la voglia da parte dei legittimi possessori di disfarsene quanto prima, non godendo delle stesse garanzie che caratterizzano l’euro. La legge, secondo la quale, “la moneta cattiva scaccia quella buona”. Il loro progressivo deprezzamento, in termini di valore, sarebbe, quindi inevitabile.

In queste condizioni, in definitiva, l’intera operazione rischia di naufragare, senza che sia nemmeno necessaria attendere la reazione delle Istituzioni internazionali. Le quali, come già indicato da Moody’s, potrebbero vedere nell’iniziativa l’inizio di quell’Italexit, più volte vagheggiata. Che dopo gli esiti catastrofici della vicenda inglese sarebbe da folli solo immaginare.

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