L’ex presidente egiziano Mohammed Morsi è morto ieri, colpito da un attacco di cuore durante un’udienza in tribunale. Morsi aveva 67 anni, era stato in carica per circa un anno, eletto nel 2012 fino al colpo di stato militare di Abdel Fattah al Sisi nel 2013, che lo aveva portato all’incarcerazione. Era uno degli esponenti di spicco della Fratellanza musulmana, organizzazione panaraba a cui si lega la più diffusa interpretazione dell’Islam politico.
Per questo, la sua mancanza ha “un doppio valore, simbolico e politico”, spiega a Formiche.net Giuseppe Dentice, analista specializzato sull’Egitto del think tank italiano Ispi. “Dobbiamo partire dal presupposto che lui era il numero tre nella gerarchia, il primo dopo il leader supremo, Muhammad Badīʿ, e la vera guida Khairat Saad el-Shater (che nel 2012 doveva essere il candidato, ma poi fu escluso per questioni burocratiche legato al doppio passaporto). Morsi è stato presidente egiziano: non è mai stato un leader carismatico, non un illuminato, ma piuttosto un uomo di partito con ottime capacità di normalizzazione, e proprio per questa sua caratteristica di essere l’uomo qualunque l’aveva portato a scalare il partito”.
Simbolo e politica, dicevamo: che simbologia possiamo leggere dietro alla morte? “La morte di Morsi rappresenta questo: con la sua fine finisce l’era rivoluzionaria, il 2011 (anno dei moti della Primavera Araba in Egitto e altrove, ndr) diventa il passato a tutti gli effetti. Lo si relega nel cassetto della memoria e resta lì, nell’attesa che venga dimenticato. E questo influenza ovviamente anche il suo movimenti, la Fratellanza, che è spaccato in varie fazioni (alcuni leader sono fuggiti in Turchia, altri sono ancora in carcere in Egitto), e ha una base riottosa”.
La Fratellanza è un argomento che ovviamente fa da sfondo alla morte di Morsi. “Riottoso”, “spaccato”, c’è una percezione secondo cui sembra invece una realtà forte: è sbagliata? “La Fratellanza non è una minaccia assoluta, né in Egitto né all’estero: e la testimonianza che il regime non le riconosce una forza tale da poter creare difficoltà sta nelle politiche draconiane con cui viene trattata”. Ossia, secondo il ragionamento di Dentice, se il regime avesse contezza di una reale forza dei Fratelli, userebbe maniere meno repressive per evitare l’innescarsi di azioni di protesta.
“Tutto questo dimostra che quello che pensiamo noi occidentali del Medio Oriente è sfalsato, perché in Egitto la Fratellanza esiste, ma è debole, all’estero stesso discorso, anche perché se è debole in Egitto non è pensabile che possa essere forte fuori. È infatti attorno al Cairo che i Fratelli hanno giocato il fulcro per la diffusione della loro interpretazione dell’Islam politico”.
All’interno di queste criticità, la morte di Morsi, appunto. “Esatto: in termini di simbologia la morte ha un effetto forte perché potrebbe segnare addirittura la fine politica della Fratellanza. Le repressioni egiziani difficilmente lasceranno spazi a un futuro, e lo stesso come abbiamo detto vale per l’estero: forse solo in Tunisia si può pensare che il partito islamista Ennhada possa vincere le elezioni, anche se i tunisini ci tengono a specificare che loro non sono la Fratellanza. E quello che emerge, è l’isolamento e la debolezza che vive questa realtà panaraba”.
Dal simbolo al messaggio politico, dunque? “Tutto questo si traduce certamente nel messaggio politico. La fine fisica di Morsi corrisponde alla vittoria definitiva di Sisi, ossia del regime militare, e questo significa che si è compiuto completamente l’atto di punizione che gli egiziani hanno deciso appoggiando la contro-protesta del 2013 verso coloro che si erano spesi nel 2011/2012. Li hanno puniti con l’arresto di colui che era il simbolo di quella fase precedente, diventato il simbolo, politico, da mostrare alle opposizioni che hanno ancora in mente di combattere quella deriva autoritaria. Ora quel simbolo è morto, finito, durante un processo che lo incolpava politicamente”.