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Perché è Dibba a far perdere consensi al M5S

GRILLO PARLANTE

È uno strano ruolo quello che nel M5S sta ritagliando per sé Alessandro Di Battista. Un po’ grillo parlante (con la g minuscola), un po’ guida morale, custode dei principi del Movimento. Come se fosse un padre nobile, un padre politicamente molto giovane. Mai impegnato in prima persona da quando il M5S è diventato forza di governo. È rimasto all’adolescenza politica dell’area di riferimento di Casaleggio. Ha preso un periodo sabbatico, non chiaramente definito, e ogni tanto si rende protagonista di un’incursione. E fa notizia. L’ultima è il suo libro, “Politicamente scorretto”, in cui ancora una volta ha bacchettato il Movimento in nome della strada maestra che non sarebbe stata seguita. Parla, anzi scrive di paura di assumere posizioni scomode, di “dire la verità”; accusa i compagni di viaggio di essere diventati burocrati da ministero chiusi in ufficio 18 al giorno, al contrario di Salvini. Il refrain è sempre lo stesso: il M5S si è istituzionalizzato, un tempo si sarebbe detto ha perso la sua forza propulsiva. Si è imborghesito. Ha perso la sfrontatezza e ha scoperto la paura: di essere politicamente scorretti e anche di assumere posizioni scomode in ambito internazionale e sull’Europa.

È la posizione di chi non ha varcato la frontiera ed è rimasto nell’universo dell’idealismo. Vien da chiedersi se questi possano essere considerati requisiti fondamentali di una forza di governo. Che, nonostante una discreta porzione di scetticismo, da più di un anno è alla guida del Paese.

Un’uscita che Di Maio ha liquidato in maniera quasi sprezzante: “Ormai lo conosciamo, è fatto così: è il D’Alema del M5S. Non ho avuto il tempo di leggere”.

E chissà che anche nella galassia grillina non sia arrivato il momento di una resa dei conti. Di Maio è da oltre un anno vicepresidente del Consiglio e inseguire il suo gemello politico non gli ha certo portato benefici. Sia nell’azione politica sia nel raccolto. I Cinque Stelle, sia pure dopo la netta sconfitta delle Europee, restano ovviamente la principale sorpresa di questa legislatura. Per i voti incassati alle politiche, per aver comunque offerto un presidente del Consiglio che alla prova dei fatti si è dimostrato decisamente più affidabile e istituzionale di come fosse stato descritto.

L’INFLUENZA NEGATIVA

Alle prime difficoltà, però, Di Maio ha derogato da alcuni sentieri su cui aveva pilotato il M5S. Innanzitutto a livello internazionale. È per l’influenza di Di Battista se Di Maio ha perso la propria centralità atlantica e ha abbracciato posizioni fuori linea come quella su Maduro e il Venezuela. O ancora il sostegno ai gilet gialli che è costato all’Italia momenti di tensione con la Francia di Macron. Senza trascurare la posizione poco chiara sulla Difesa e sugli F35.

Una volta a Palazzo Chigi, Di Maio è comunque riuscito a intessere relazioni importanti sia con gli Stati Uniti sia con l’Unione Europa. Come si conviene a una forza di governo per quanto nata sull’onda di un duraturo e crescente movimento di protesta. Giocare alla rivoluzione è un conto, governare un Paese è un altro. Questo Di Maio lo ha compreso sulla propria pelle. Inseguire la linea idealistica e movimentistica di Di Battista, ha portato il vicepresidente del Consiglio a perdere credibilità in determinati ambienti e a rendersi meno affidabile agli occhi dei moderati che pure lo avevano votato alle Politiche. Non si prendono oltre dieci milioni di voti alla Camera e quasi dieci al Senato soltanto con il ribellismo. C’erano tanti moderati in quel risultato del 2018. E in tanti, poi, hanno cambiato idea. Anche per le influenze movimentiste che hanno riportato il M5S su binari pre-governo e regalato importanti spazi istituzionali a Matteo Salvini e alla sua Lega.

Di Maio adesso ha un bagaglio politico-istituzionale imparagonabile a quello di un anno fa. La forbice con Di Battista – che è rimasto lontano dalla politica attiva – si è ulteriormente ampliata. Ha dovuto anche affrontare il risultato delle Europee, il netto sorpasso dell’alleato di governo. Ovviamente sono cambiati i rapporti di forza, e Di Maio ha dovuto incassare e ripartire. È cresciuto, è un uomo politico (anche se per qualcuno nel M5S questo è un handicap). È giunto il momento di abbandonare il Dibba, di lasciarlo  alla sua linea idealistica che alla fine della fiera ha solo fatto perdere voti e consensi diplomatico-istituzionali. I tempi sono maturi: una cosa è scrivere libri, un’altra è governare.

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