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Iran e non solo. Pompeo negli Emirati Arabi alle prese con il dossier Libia

Sebbene sulla scala di interessi e tensioni l’Iran sia stato il primo dei dossier affrontati, negli incontri durante le sue tappe nel Golfo, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha parlato anche di Libia (e di Sudan). Per esempio, nel readout diffuso dal dipartimento statunitense per l’incontro con il principe ereditario emiratino Mohammed bin Zayed (anche MbZ), si legge che – oltre al mantenimento di controllo, sicurezza e stabilità lungo lo Stretto di Hormuz, luogo di concentrazione del confronto Usa-Iran – il capo della diplomazia americana ha discusso con Abu Dhabi “la necessità di una soluzione politica in Libia per creare una pace e una stabilità duratura”.

LA SITUAZIONE CON LA LIBIA 

La questione è interessante perché rappresenta un’intersezione di due degli attori più forti e potenzialmente funzionali alla situazione della crisi libica. Da una parte ci sono gli Emirati Arabi, uno dei paesi – insieme all’Egitto e in parte all’Arabia Saudita, con cui hanno un buon coordinamento sulle politiche estere – che hanno sponsorizzato e sta sponsorizzando Khalifa Haftar. Il signore della guerra dell’Est libico ha lanciato il 4 aprile una campagna di conquista su Tripoli per destabilizzare il Governo di accordo nazionale onusiano e intestarsi la pratica di guidare il paese come un nuovo rais.

E a Riad, Abu Dhabi e Cairo l’idea non dispiacerebbe, anche per via del confronto intra-sunnita, che vede da una parte questi tre Paesi e dall’altra Turchia e Qatar, sostenitori di una linea islamista detestata dal pragmatismo con cui gli altri cercano di affrontare le questioni correnti e le più strategiche sulla spinta della visione futuristica dei nuovi sovrani (già di fatto regnanti e policy maker nel Golfo).

Dall’altra parte, gli Stati Uniti, che hanno avuto due posizioni apparentemente diverse nel corso di questi due mesi. Prima il dipartimento di Stato ha chiesto di fermare i combattimenti a sud di Tripoli e di ripristinare lo “status quo ante”, ossia una ritirata dell’aggressione haftariana dall’hinterland tripolino. Era il 7 aprile. Poco più di una settimana dopo, la Casa Bianca ha diffuso ai giornalisti del Pool la ricostruzione di una conversazione avuta dal presidente con Haftar, che è sembrata legittimare il percorso armato intrapreso dall’autoproclamato Feldmaresciallo, salvo poi essere normalizzata dal Consiglio di Sicurezza nazionale, dal Pentagono e dal dipartimento di Stato stesso.

Successivamente, in varie occasioni, Washington ha tenuto una posizione più distaccata, ma comunque ben allineata sul percorso Onu, che ha ripreso l’organizzazione della Conferenza programmatica prevista per il 13 e 14 aprile, poi saltata per via dell’attacco a Tripoli di Haftar. Le Nazioni Unite confermano la linea, intendono procedere con la conferenza anche – adesso – come via di de-conflicting e da lì riavviare il percorso politico.

IL MEETING USA-UAE: SCENARI…

L’incontro tra Pompeo e MbZ può avere un senso sugli equilibri libici secondo due scenari. Nel primo, gli Stati Uniti decidono di muovere il proprio peso diplomatico e chiedono ad Abu Dhabi di allentare il sostegno ad Haftar (che è politico, economico, ma anche militare: gli emiratini forniscono supporto aereo tramite dei droni cinesi piazzati ad Al-Khadim, un centinaio di chilometri da Bengasi, cuore del potere haftariano) e riprendere il percorso Onu. Nel secondo, il faccia a faccia tra alleati potrebbe significare un coordinamento proprio su Haftar, un modo per spingere l’avanzata e guidare un qualche processo successivo.

Tre giorni fa, l’uomo forte della Cirenaica – che è in netta difficoltà sul campo, perché ha trovato una resistenza superiore del previsto a protezione della Tripolitania – ha ospitato nel suo quartier generale, ad al Rajmah, il rappresentate speciale delle Nazioni Unite, Ghassan Salamé, che sta cercando la via del cessate il fuoco. Haftar ha detto di essere favorevole a un soluzione politica, ma prima deve “liberare” la Libia dagli “islamisti e dai terroristi” (che è la linea difesa dai suoi sponsor esterni). Una fonte da Misurata – città che si occupa di guidare le forze di difesa anti-Haftar a Tripoli – ci fa notare che nell’incontro il Feldmaresciallo “è apparso piuttosto affaticato, emaciato, tanto che sembra non essere in buone condizioni di salute”, che è un argomento di fondo dietro “a chi pensa di affidargli un ruolo in un qualche processo di stabilizzazione verso il futuro”. La debolezza sul campo potrebbe potrebbe essere un altro elemento aggiuntivo: oggi Haftar pare abbia perso Sabha, centro di coordinamento dell’attacco.

… E CONTROPARTITE

Sui contatti tra Stati Uniti ed Emirati Arabi (e Arabia Saudita: Pompeo è stato a Jeddah prima che ad Abu Dhabi) potrebbero tuttavia intersecarsi diversi piani su entrambi gli scenari. Per esempio (sempre restando nel campo delle speculazioni, ndr) gli Stati Uniti potrebbero accettare di tenere al minimo le intromissioni in Libia, lasciare spazio agli interessi degli amici emiratini, ottenendo in cambio sostegno più attivo nel Golfo, e in generale in Medio Oriente (per dire: Washington sta chiedendo alle nazioni alleate di farsi carico di coprire il disimpegno che la presidenza Trump impone sulla Siria). D’altra parte, se Washington volesse, potrebbe barattare la postura severa anti-Iran (che Riad e Abu Dhabi spingono) con un alleggerimento degli interessi e delle penetrazioni dei Paesi del Golfo in Nordafrica, in particolare appunto sulla Libia; sempre se gli Usa intendano proteggere il processo onusiano.

(Foto: Twitter, @SecPompeo)



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