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Quattro giorni in giugno. La procedura di infrazione Ue secondo Pennisi

I meno giovani ricorderanno un thriller politico di alto livello degli Sessanta del secolo scorso di cui venne tratto all’epoca un film di grande successo (spesso visibile in televisione anche oggi) ed alla metà degli anni Novanta una breve serie televisiva americana diffusa in tutto il mondo. Trattava di un intrigo per sovvertire l’ordine costituzionale americano in un clima di guerra fredda, tensioni e forti contrasti ideologici. Il titolo era accattivante Sette Giorni a Maggio. Tanto il romanzo quanto il film, quanto, infine, la miniserie televisiva erano caratterizzati dallo scandire delle ore per il poco tempo che mancava per fare saltare il complotto e farlo, dunque, fallire.

Mi è tornato in mente quando ho realizzato che da oggi domenica 16 giugno a giovedì 20 giugno mancano solo quattro giorni. Il 20 giugno si riunisce il consiglio dei Capi di Stato e di governo dell’Unione europea, nel cui seno quelli che rappresentano l’eurozona verranno verosimilmente chiamati a decidere se iniziare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia. È bene, quindi, cominciare a contare le ore.

LA FAMIGERATA PROCEDURA D’INFRAZIONE

Occorre, tuttavia, chiedersi in via preliminare se la “famigerata” – la chiamano così i mezzo-busto televisivi – procedura è necessariamente un danno. Numerosi colleghi economisti ritengono che non lo sia per due ragioni: a) anche se la procedura influirà negativamente sulla reputazione dell’Italia, i mercati finanziari mondiali nuotano nella liquidità e, quindi, non è detto che reagiscano con ulteriore aumento dello spread (pure in quanto avrebbero già messo in conto che discoli siamo e restiamo tali); b) la procedura e la minaccia di severe sanzioni pecuniarie (che verrebbero applicate per la prima volta nella storia dell’eurozona) potrebbero servire a farci adottare politiche di finanza pubblica e di economia reale di maggior buonsenso di quelle che attueremmo da soli senza il pungolo delle istituzioni europee (e del Fondo monetario internazionale). Questa lettura della procedura è, ovviamente, agli antipodi di quanto sostengono “sovranisti” di vario genere in quanto equivale a dire che necessitiamo di una costrizione esterna per elaborare le politiche, i programmi e le misure che potrebbero ridurre il fardello del debito ed avviare una crescita che non sia rasoterra.

IL DEBITO PUBBLICO E IL MODELLO GIAPPONESE

Occorre, poi, chiedersi se dobbiamo preoccuparci o meno dell’aumento del debito pubblico in rapporto al Pil. A fine marzo, Formiche aveva anticipato che economisti vicino ai contraenti del “contratto di governo” guardano con interesse all’esperienza giapponese dove il debito pubblico è pari al 200% del Pil ed è assorbito interamente sul mercato interno grazie all’alto tasso di risparmio dei nipponici. Anche gli italiani – ci ha ricordato venerdì scorso il presidente della Consob Prof. Paolo Savona – sono grandi risparmiatori; quindi, perché non seguire “il modello” – ove mai ce ne sia uno – del Sol Levante? Molti aspetti dell’economia e della società giapponese, che conosco bene, sembrano adattarsi molto poco alla società italiana: la disciplina, la sobrietà di vita e di consumi. Il Giappone ha, poi, da decenni una politica di “invecchiamento attivo”: oggi si va in pensione a 70 anni con il 35% dell’ultimo stipendio e successivamente si è impegnati (gratis) in attività di pubblica utilità. Che risultato avrebbe alle urne la forza politica che lo proponesse agli italiani? Dato che un terzo del nostro debito pubblico è collocato all’estero, c’è da dubitare che investitori stranieri credano ad gemellaggio Italia-Giappone, una piccola replica di un asse che non fini tanto bene alcuni decenni fa.

UN PERCORSO VIRTUOSO

Occorre, infine, chiedersi cosa dovremmo fare per metterci su un “percorso virtuoso” di finanza pubblica e di crescita, sia che lo facessimo da soli sia che fossimo più o meno costretti da altri. Il primo punto è il riassetto della finanza pubblica, con una riduzione della spesa di parte corrente ed un forte aumento di quella in conto capitale per investimenti in infrastrutture fisiche ed umane ad alta redditività. Negli ultimi lustri si sono succedute per individuare sussidi e sgravi fiscali di poca o nessuna utilità; il menu è vasto, basta scegliere. Inoltre, ci sono i “risparmi” delle spese programmate per “quota 100” e la discussa “rendita di cittadinanza” (puro assistenzialismo ed incentivo al lavoro nero); vanno di corsa allocati ad investimenti urgenti (quali il corridoio meridionale delle reti di trasporti europei bloccato dai particolarismi che frenano l’alta velocità tra Lione e Torino, essenziale per mettere le nostre imprese sullo stesso livello dei concorrenti). Il secondo punto è il rilancio della concorrenza per incentivare produttività e competitiva: è assurdo, ad esempio, che l’Italia sia uno dei pochi Paesi OCSE in cui siano vietati gli Uber e che a Roma (dove le licenze dei taxi andrebbero almeno triplicate) il 13 giugno, alle 17:30 dopo avere atteso 45 minuti un taxi a Piazza Cavour, ci senta dire fa caldo e sarebbe meglio stare a casa nelle ore di punta (sic!).

Naturalmente, ciò vorrebbe anche dire incoraggiare le imprese vincenti e non praticare, con i soldi di tutti, accanimento terapeutico nei confronti di quelle decotte. È unicamente buonsenso. Perché farcelo imporre dai nostri partner? Pensiamoci in questi quattro giorni in giugno.

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