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La Russia vince (per ora) la battaglia per la ricostruzione siriana

siria

Per la Turchia, la guerra in Siria è stata, fin dall’inizio, un problema “domestico”.

Ma non lo era del tutto. Per l’Occidente, era una occasione per far male ad un alleato dei russi, ma hanno perduto, quelli dell’Ovest, allocando Damasco, inoltre, tra le aree di espansione strategica dell’Iran sciita. Regalare il terreno all’avversario, errore basilare di strategia.

Sembra, lo dico tra parentesi, che la Strategia Globale sia memoria persa, per l’Occidente, più o meno come l’economia politica è del tutto dimenticata, tra le oscillazioni dei mercati e gli algoritmi delle borse titoli.

Da una parte, comunque, Erdogan ha solleticato all’inizio della crisi siriana l’orgoglio dei suoi elettori nazionalisti, dall’altra ha giustificato, con la vasta operazione turca in Siria, l’aumento dei prezzi interni e quello dell’inflazione.

Due soluzioni, propagandistiche, per lo stesso problema. Ovvero, l’egemonia turca in Asia Centrale.

ELIMINARE IL POTERE DEGLI ASSAD

Ovviamente, l’obiettivo primario, per la Turchia dell’AKP, che è, ricordiamolo, un partito che nasce da una vecchia rete dei Fratelli Musulmani, era quello di entrare in Siria per eliminare il potere baathista degli Assad, al fine di sostituirlo con un regime nettamente filo-turco.

Ankara ha accettato, per questo fine, la presenza dei “terroristi” e il supporto militare turco al jihad siriano, perfino il larvato sostegno al sedicente “califfato”, per bloccare l’espansione dei curdi siriani-iraqeni e il loro collegamento, anche territoriale, ai curdi anatolici.

Ecco il fine dell’operazione “ramo d’olivo” che le forze Armate turche hanno compiuto all’inizio del 2018.

Si trattava, in quel caso, di bloccare l’amministrazione curda di Afrin per evitare che, da lì, lo YPG curdo creasse una sua continuità strategica e territoriale nel nord della Siria, fino al contatto con i curdi anatolici.

Molti turchi, peraltro, furono trasferiti nella zona da parte delle Forze di Ankara.

Oggi, Ankara vuole tre cose, l’accordo con la Russia per il futuro della Siria, il mantenimento della neutralità dell’Iran in Siria e altrove; e, perfino, la stabilità interna del regime di Bashar el Assad.

Erdogan vorrebbe anche dei buoni rapporti con gli Usa, che si muovono in Siria con idee ancora molto vaghe.

E questo vale, purtroppo, per molti dei players strategici in Siria, oggi.

La Banca Mondiale, dopo otto anni di guerra, ha calcolato che i soli danni fisici alle case e alle infrastrutture valgano non meno di 197 miliardi di usd.

Un quarto di tutte le case siriane è distrutto, ma il costo del ritorno allo status quo ante è, secondo alcuni, di 300 miliardi, per altri ancora di 400, ma per i più pessimisti di 450 miliardi di usd.

Riteniamo che il costo reale, oggi, sia quello di 400 miliardi. Ogni momento le forze siriane di Assad e gli abitanti scoprono disastri di cui non si aveva notizia.

Gli unici due sostenitori esterni del regime di Assad, Russia e Iran, non sono comunque nelle condizioni di aiutare, date le cifre, la ricostruzione siriana.

Gli Usa e l’UE non sono, peraltro, interessati a finanziare il ritorno alle condizioni economiche pre-conflitto della Siria, a meno che non ci sia una “transizione politica”, ovvero a meno che Bashar el Assad non se ne vada.

Il problema è che lui ha vinto, con l’aiuto di Russia e Iran, ma l’occidente, con la sua infinita coalizione, ha perso. Chi può mandare via chi?

SANZIONI ECONOMICHE CONTRO LA SIRIA 

Anzi, le sanzioni economiche Usa e europee contro la Siria si sono ulteriormente aggravate all’inizio del 2019, avendo comunque a che fare con una popolazione di 13 milioni di abitanti, che ha urgente bisogno di sostegno, medicinali, cibo.

La più grande crisi umanitaria dopo quella della Seconda Guerra Mondiale, quindi, ma sia Washington che, in particolare, Berlino sono interessate solo a che il sedicente “tiranno” Assad se ne vada, magari per ricreare quel vuoto jihadista che la Siria ha appena superato.

E che l’Occidente non saprebbe gestire, né se fosse a favore, né se fosse contro.

Le sanzioni nordamericane impongono, oggi, un blocco su tutte le esportazioni verso la Siria o su qualsiasi operazione finanziaria che riguardi entità siriane.

L’80% di coloro che avrebbero bisogno di serie cure ospedaliere non può essere trattato, mancano medici, farmaci, ospedali.

Le sanzioni riguardano anche i farmaci e le tecnologie medicali, oltre che tutte le parti elettriche, elettroniche, industriali, petrolifere.

Sono colpiti da sanzioni anche gli apparati elettrici più semplici e i loro ricambi.

In ogni caso, la Siria potrà avere, data la nuova configurazione politica della UE, un qualche appoggio politico astratto, ma certamente non aiuti concreti.

Viene in mente, qui, l’assemblea dei nobili ungheresi, a cui Maria Teresa d’Austria chiese il sostegno per la sua guerra contro Federico II di Prussia che aveva invaso la Slesia.

“Daremo la nostra vita per la Regina, ma l’avena per i cavalli no”.

La Cina potrebbe essere certamente una soluzione.

Fino ad oggi, Pechino non ha mostrato particolare attenzione per il tema, ma ha partecipato, comunque, all’incontro tra 70 Paesi e istituzioni internazionali, tenutosi nell’aprile 2017, per la ricostruzione della Siria.

E comunque senza dare direttamente una mano, la Cina, a quel “tiranno” di Assad, che pure ha salvato il suo popolo e lo stesso Occidente dal jihad “della spada” che, dalla Siria, si sarebbe espanso ovunque nel Vicino Oriente e, probabilmente, anche in Europa Orientale.

Intanto, Pechino ha già concesso 2 miliardi, da investire nell’industria siriana tra il 2018 e il 2019.

Ci sono, per il 2019 e oltre, altri 23 miliardi, concessi dalla Cina attraverso il Forum di Cooperazione tra la Cina e gli Stati Arabi.

Ovvio che Pechino non voglia affatto essere implicata nel caos mediorientale, nel quale non ha alcun interesse ad entrare.

La Siria ha, comunque, un ruolo non irrilevante nella Belt and Road Initiative.

Tripoli del Libano è già stata programmata per essere una Zona Economica Speciale della BRI, visto che il porto tripolino libanese sarà la base per i trasporti della BRI verso tutto il Mediterraneo dell’Est.

GLI INTERESSI DELLA CINA E NON SOLO

La Cina, peraltro, proprio per rivitalizzare quel porto, intende costruire la ferrovia Tripoli-Homs, mentre Pechino ha già regalato, nell’ottobre 2018, ben 800 generatori elettrici alla città di Latakia.

Un altro fondamentale porto siriano.

Già nel 2017, Pechino ha poi ospitato la “Prima Fiera Commerciale sui Progetti di Ricostruzione Siriani”, con i due miliardi già citati per le imprese siriane e, soprattutto, il sostegno, non solo formale, per la ricostruzione di oltre 150 imprese siriane.

La Cina è interessata alle aziende locali siriane che si occupano di acciaio e di energia, con la China National Petroleum Corporation che è, peraltro, già presente nella compagine azionaria di due tra le maggiori società petrolifere siriane, la Syrian Petroleum Company e la Al Furat Petroleum.

Vi è, inoltre, un progetto cinese per il sostegno tecnologico e addestrativo delle Forze Armate siriane.

Poi, ci sono le automobili cinesi, un mercato che Pechino mantiene insieme agli iraniani.

Con uno scambio accorto tra terre arabili e tecnologia, l’Iran ha già fornito alla Siria la sua rete di telefonia mobile, oltre che la gestione di alcune miniere di fosfati.

Tutte le operazioni economiche iraniane sono condotte da dirigenti della Guardia Rivoluzionaria, e saranno probabilmente i militari iraniani a chiamare in gioco, al momento opportuno, le imprese cinesi.

Una possibilità, per Assad, potrebbe essere il sostegno, non ancora maturo politicamente, ma non certo impossibile, degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita.

Le due potenze della penisola arabica sono soprattutto interessate a limitare la proiezione di potenza della Turchia e del Qatar, i due sostenitori principali dell’opposizione (e del jihad) contro Bashar el Assad, mentre leggono come poco rilevante, dal pinto di vista economico, la presa dell’Iran sulla Siria. Almeno per ora.

LA STRATEGIA DEL REGIME

Alla fine del 2018 si sono comunque riaperte le ambasciate, a Damasco, del Bahrein e degli Emirati.

Inoltre, manca la manodopera, come è facile immaginare, in tutta la Siria.

Moltissimi sono emigrati in Libano o in Giordania, oppure in Europa.

Ma, ancora, c’è la carenza di capitali, che induce anche quella di manodopera.

Da questo punto di vista, il regime di Bashar el Assad ha elaborato un modello di partnership pubblico-privata, che è il criterio quasi unico, sul piano legale, per la ricostruzione.

Il decreto 19 del presidente Assad, del maggio 2015, stabilisce che le varie unità amministrative compresi i governatorati e le municipalità, possano costituire le loro autonome società di investimento.

Nel gennaio 2016, il governo di Assad ha poi votato la legge sulla Public-Private Partnership, che permette alle aziende del settore privato di gestire e sviluppare tutti gli asset pubblici in loro possesso o controllo.

Il governatore di Damasco è, per esempio, il presidente della società che sta investendo nel settore immobiliare di Basateem al-Razi, un distretto della capitale siriana.

Naturalmente, il ricorso ai privati non è sufficiente, i sistemi PPP si basano soprattutto sui finanziamenti bancari, ma anche le banche non hanno certamente a loro disposizione tutti i capitali disponibili per la ricostruzione.

Tutte le banche siriane hanno, secondo gli ultimi calcoli, a riserva 1,7 trilioni di lire siriane, ovvero 3,5 miliardi di usd, quindi il ruolo primario sarà, inevitabilmente, dei donors. Soprattutto esteri.

Ovviamente la Russia, la Cina, l’Iran, ma ci sono anche, e li vedremo presto all’opera, la Corea del Nord, il Brasile e l’India.

E l’Iran, appunto? Recentemente, Teheran ha firmato un Memorandum of Understanding per la costruzione di ben 200.000 abitazioni ad uso civile, a Damasco.

Molte delle transazioni, data la politica Usa e UE, saranno messe in atto fuori dal circuito SWIFT.

Il sistema suddetto ha due processori, uno in Olanda e l’altro negli Usa, che funzionano indipendentemente. E, spesso, le transazioni non avverranno in dollari Usa.

IL PREZZO DELLA RICOSTRUZIONE 

Teheran vuole, inoltre, costruire una centrale elettrica a Latakia, mentre il regime degli Ayatollah sostiene il regime di Bashar el Assad, ancora oggi, con ben 6 miliardi di usd l’anno.

Se poi mettiamo insieme il sostegno economico con quello militare, alcuni analisti sostengono che i trasferimenti di Teheran a Damasco vanno dai 15 ai 20 miliardi di usd l’anno.

E, se ci saranno legami credibili tra gli investimenti di Teheran e gli atteggiamenti politici di Damasco, i soldi iraniani continueranno a fluire.

La Federazione Russa ha, poi, fatto un pesante lobbying per la ricostruzione siriana, con un intervento diretto di Gerasimov, capo di stato maggiore, nei confronti degli Usa.

La risposta è stata quasi immediata: la “transizione” politica, ovvero una rapida uscita di Assad dalla scena, è il prerequisito per i finanziamenti.

Assad, che pure ha vinto contro il jihad, spesso organizzato da alleati dell’Occidente, è oggi colpevole solo di essere rimasto in sella, invece di lasciare la Siria in mano ai terroristi islamici, che pure l’Occidente diceva di combattere.

Strano, poi, che certi adoratori della democrazia si abbassino a questo tipo di ricatti.

La Merkel, dopo essere stata contattata nell’agosto del 2018 da Vladimir Putin, ha affermato di voler evitare una “catastrofe umanitaria” che pure è già da tempo in atto, ma di non voler comunque partecipare ad un processo di ricostruzione a Damasco diretto, piaccia o non piaccia, dal vincitore siriano, Bashar el Assad.

Stesse parole sono state pronunciate dai dirigenti francesi. Bei tempi, quando, in una Germania al lastrico, Hjalmar Schacht, il “banchiere di Hitler”, ebreo e massone ma comunque libero, creava, a Monaco di Baviera, una banca di affari per aiutare il Medio Oriente e l’Africa..

La Russia ha fatto anche nuove pressioni sull’Arabia Saudita, sempre nell’agosto del 2018, anche se Riyadh non è certamente mai stata amica del regime alawita e filo-iraniano di Damasco.

Certo, nemmeno ora i sauditi vogliono accollarsi la gran parte del costo della ristrutturazione della Siria.

Ovviamente, il regime di Riyadh può vedere gli investimenti in Siria come un antidoto alla presenza iraniana, ma nulla è ancora deciso.

L’IPOTESI DI PECHINO

Ma le forze interne al cerchio interno di Mohammed bin Salman non sono del tutto contrarie ad una operazione finanziaria seria e pesante in Siria, per allontanare definitivamente Teheran.

Un equilibrio di minacce e segnali potrebbe far arrivare, magari con la protezione militare russa, che non vuole certo una egemonia sciita sulla Siria, un segmento di finanziamenti sauditi a Damasco, non esclusivi ma, anche, estranei all’Occidente, che non vede altro che la ingenua fuga del “tiranno”.

Non gli è bastato, agli occidentali, il disastro libico, ora vogliono, malgrado abbia vinto, la fuga del capo alawita e baathista della Siria.

E dopo? O il caos jihadista, da cui credono di trarre vantaggio contro l’Iran, o la penetrazione cinese, che non sarà certo amichevole per il business occidentale.

L’altra ipotesi finanziaria dei russi per la Siria è, come abbiamo visto, la Cina.

Ma Pechino non si muoverà davvero, fino a che le truppe Usa passeranno stabilmente dal quadrante siriano a quello estremo-orientale.

Nel gennaio 2018, i russi hanno poi chiuso un contratto che permette alle loro imprese del settore di sfruttare in modo esclusivo i giacimenti di petrolio e di gas sotto il controllo diretto delle forze di Assad.

Le riserve siriane di idrocarburi sono presenti, soprattutto, nelle regioni del Nord-Est, in aree controllate dalle Forze Democratiche Siriane in mano ai curdi dell’YPG.

Altri progetti russi sono: la generazione di elettricità nel distretto di Homs, una nuova linea ferroviaria che lega l’Aeroporto Internazionale di Damasco al centro della città, una serie di industrie manifatturiere.

Il fervore imprenditoriale russo non ha mancato nemmeno di innervosire gli iraniani: Mosca ha “soffiato” all’Iran un contratto cinquantennale per l’utilizzo dei fosfati.

Quindi, La Federazione Russa vince, per ora, la battaglia per la ricostruzione siriana, ma poi ci sarà inevitabilmente la Cina e poi, se l’Occidente rimarrà sordo, e magari anche cretino, non ci sarà più nulla per Damasco, il che ricreerà le condizioni per una nuova guerra regionale che, ci scommettiamo fin d’ora, l’Occidente perderà di nuovo.



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