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La Ostpolitik di Papa Francesco parte dalla Romania

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É importante capire i numerosi viaggi di Papa Francesco, che in questo periodo si concentrano nell’est europeo, dove porta avanti con poco capita determinazione il suo servizio alla comprensione, presupposto per un’unità dei cristiani che non miri a uniformare, come certa globalizzazione, ma a unire nel rispetto delle storie e delle diversità. É il cristianesimo poliedrico di Jorge Mario Bergoglio, esempio per un mondo non uniformato, ma unito nella poliedricità.

Quello del Papa è dunque un servizio religioso ma non solo, perché difficilmente si potrà dubitare che di tutto l’Europa, questa Europa, abbia bisogno piuttosto che di una conflittualità cristiana o inter-cristiana. Eppure questa conflittualità non solo potrebbe esserci, ma c’è, come dimostra lo scisma ortodosso dopo il riconoscimento da parte del patriarcato ecumenico di Costantinopoli dell’autocefalia della Chiesa ortodossa in Ucraina.

Che una Chiesa di così tanti milioni di persone avesse quasi automaticamente diritto a una Chiesa autocefala sembra scontato, ma non per Mosca, che conserva, complesso negarlo, un approccio imperiale. In questo contesto lasciare Mosca alle sue spinte estreme sarebbe un drammatico errore. Ma certo è un mondo ortodosso scosso da divisioni e a dir poco frizioni quello che vive oggi, maggioritariamente, nell’est europeo.

E a questa ortodossia il Vaticano ha deciso di offrire una nuova Ostpolitik, basata su un approccio di vicinanza a tutti. Forse il prodotto di questa vicinanza si vede bene oggi, dopo che il vescovo di Roma e capo della Chiesa cattolica ha visitato la Macedonia, dove la Chiesa ortodossa locale non viene riconosciuta da quella serba, la Bulgaria, dove è stato lasciato da solo e in silenzio nella cattedrale di Sofia per la paura dell’altro che domina gli integralisti, e ora la Romania, dove la memoria di quella visita solitaria e silenziosa ha reso fortissima ed evidente la scelta di segno opposto del patriarca romeno, che lo ha accolto in cattedrale rivolgendogli tramite il patriarca un discorso molto importante. Averle visitate tutte e tre, senza alcuna interferenza nelle dispute interne ma dimostrando rispetto per tutti, è forse la sintesi migliore dell’Ostpolitik vaticana, equivicina si potrebbe dire.

Nella retorica dell’ortodossia fedele ai rigori di Mosca, la famiglia è un caposaldo del no a qualsiasi rapporto con la società secolarizzata. Un approccio rigido che può creare rigore, ma che il patriarca rumeno, rivolgendosi a Bergoglio, ha magistralmente rispettato privandolo però di toni duri, di condanna per capirci, e integrandolo con la cura per gli ultimi, per gli svantaggiati, per gli altri. Il papa da parte sua ha saputo offrire a questa visione una proiezione umana e cristiana continentale, parlando di radici cristiane da rinsaldare respingendo quella cultura dell’odio che minaccia il continente dall’interno.

Non è un compito facile quello che si è dato il vescovo di Roma. Non scegliere i più prossimi alla sua sensibilità come unici amici evita che i settori più identitari del frammentato mondo ortodosso scivolino verso sciovinismo e magari ostilità al cattolicesimo. Questa cura assidua, accorta, riguardosa del passato complesso e sofferto di questo cristianesimo che è stato ferito, perseguitato, si unisce alla cura per chi dimostra apertura, offrendogli anche l’opportunità di un esprimere la propria sensibilità senza chiedere, senza pretendere. Si potrebbe dire, forse, “accompagnando”.
Le Chiese cattoliche e greco-cattoliche che vivono nell’est europeo trovano così un ruolo di incontro, di avvicinamento, ma non di contrapposizione, e questo non è facile soprattutto nei punti di attrito, ma è importante per non dare alla grande Europa l’incubo di confrontarsi anche con un altro muro.

Diviene così importantissimo il discorso che Jorge Mario Bergoglio ha pronunciato davanti ai suoi fratelli ortodossi. Cosa ha detto? Ha ricordato le persecuzioni del passato, i martiri del tempo sovietico, quando i cristiani erano vittime di un regime ateo. Ha ricordato i sette vescovi cattolici vittime del comunismo che beatificherà domani per poi aggiungere che parlano all’oggi: “il loro esempio sta oggi davanti a noi e alle nuove generazioni che non hanno conosciuto quelle drammatiche condizioni. Ciò per cui hanno sofferto, fino a offrire la vita, è un’eredità troppo preziosa per essere dimenticata o disonorata” Disonorata? E perché? : Perché c’è “un senso dilagante di paura che, spesso fomentato ad arte, porta ad atteggiamenti di chiusura e di odio. Abbiamo bisogno di aiutarci a non cedere alle seduzioni di una cultura dell’odio, di una cultura individualista che, forse non più ideologica come ai tempi della persecuzione ateista, è tuttavia più suadente e non meno materialista. Essa presenta spesso come via di sviluppo ciò che appare immediato e risolutorio, ma in realtà è indifferente e superficiale”.

Questo cuore fortissimo del discorso ai fratelli si incontra con quello alle autorità politiche, sollecitate a ricordarsi che la finalità più nobile della Stato è il bene comune, quello per cui ognuno è chiamato a rinunciare a qualcosa, di visione o interesse, per l’altro. L’epoca democratica per la Romania ha significato libertà, pluralismo ma anche emigrazione per tanti: e ha reso omaggio “ai sacrifici di tanti figli e figlie della Romania che, con la loro cultura, il loro patrimonio di valori e il loro lavoro, arricchiscono i Paesi in cui sono emigrati, e con il frutto del loro impegno aiutano le loro famiglie rimaste in patria”. Sappiamo vedere nei migranti un arricchimento? Se sappiamo farlo sapremo anche sottrarci alla cultura dell’odio. L’ecumenismo di Bergoglio parte dalla consapevolezza del passato per proiettarsi nell’oggi e nelle sfide che crea per domani.

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