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Sulla solidità dei conti ha ragione Mattarella. Ma senza sviluppo nessuna ricetta è valida

L’attesa principale riguarda la lettera che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, invierà in Europa. Anche se, ancora, non è chiaro quali saranno gli effettivi destinatari. Dovrà essere redatta solo dopo un confronto più serrato con Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Il primo reduce dal suo viaggio americano e dall’investitura ricevuta, quale leader della principale forza politica italiana, in (quasi) totale sintonia con l’Amministrazione a stelle e strisce. Voler importare, in Italia, le ricette del “trumpismo” non è stata solo una mossa diplomatica. Quella prospettiva, nel Dna della Lega, risponde ad una convinzione di fondo. Che può riassumersi nell’esigenza di una grande riforma fiscale, quale elemento cardine per far ripartire un’economia che soffre da troppo tempo di anemia produttiva. Forse non sarà la flat tax, come finora è stato indicato. Ma certo è che quell’esigenza è sempre più avvertita, non solo tra il popolo leghista. È stato lo stesso Ignazio Visco a parlarne, nelle sue ultime “Considerazioni finali”, svolte nella sede istituzionale della Banca d’Italia, marcando una cesura profonda (“le tasse sono bellissime”) con un credo che sembrava consolidato.

Non è la sola convergenza. Negli Stati Uniti, di fronte ad un tasso d’inflazione che rallenta (seppur di poco) rispetto alle previsioni, Donald Trump è tornato alla carica contro la Fed, che aveva anticipato di voler rialzare i tassi d’interesse. Forse non diminuiranno, come lui vorrebbe. Ma nemmeno aumenteranno, secondo i propositi di Jerome Powell, il suo Presidente. Il fatto è che il tema dello sviluppo non è solo una prerogativa italiana. È il grande mantra che marca una svolta rispetto all’enfasi riposta, in passato, nelle politiche stabilizzatrici.

Lo stesso Mario Monti sembra essersi convertito lungo la strada di Damasco, quando sottolinea la necessità della golden rule: mantenere fuori dal Patto di stabilità la spesa per investimenti. Solo un piccolo passo in avanti, tuttavia. C’è ancora la preferenza per un rinnovato intervento dello Stato. Cosa buona e giusta se fossimo in qualsiasi altro Paese europeo. Ricetta meno efficiente, rispetto al possibile dinamismo del mercato, se si rimane con i piedi piantati per terra. In Italia gli investimenti pubblici non si fanno per carenze di finanziamenti, ma per la confusione che regna sovrana nel ginepraio di leggi, regolamenti, inerzie burocratiche. La montagna che partorisce un topolino. Il che non significa ovviamente che non si debba intervenire. Ma avendo l’esatta cognizione dei tempi che queste riforme richiedono. Risorsa di cui non disponiamo.

IL COMPITO DI CONTE

È quindi un esercizio difficile quello che Conte dovrà fare. Non si tratta solo di mediare tra i due partner di governo, alla ricerca di una propria visibilità. Leggi il salario minimo garantito: arma da maneggiare con cura se si vogliono evitare effetti perversi sull’occupazione. Non si dimentichi che il salario è, comunque, parametrato ai sottostanti livelli di produttività. Ma sullo sfondo è ancora un’Europa, egemonizzata dalla forte presenza tedesca. E dall’altro l’amico americano, sempre più insofferente agli eccessi di quel mercantilismo che si manifesta nella profonda asimmetria delle relative bilance dei pagamenti. Ad un surplus dell’Eurozona, pari al 3,6 per cento del Pil (2018) ne corrisponde uno di segno opposto: quel deficit americano che è pari al 2,4 per cento. Un tarlo nella testa di “America first”.

DRAGHI

Tra gli altri protagonisti della vicenda internazionale ha fatto sentire la sua voce anche Mario Draghi. Non ha parlato, in modo esplicito, di rapporti commerciali. Ha tuttavia fatto cenno ai “fattori geopolitici” e alla “minaccia del protezionismo” nonché alla “vulnerabilità dei mercati emergenti”. E alle possibili conseguenze: “il trascinarsi dei rischi” che pesano “sull’export, specie dell’industria manifatturiera”. Alla quale la Bce dovrà, eventualmente, far fronte con ulteriori stimoli monetari. Non solo “taglio dei tassi” ma “misure per mitigare qualsiasi effetto collaterale”. Effetto collaterale: appunto. Il presidente della Bce è da tempo consapevole che la politica monetaria da sola non basta. Sono indispensabili, specie per i Paesi rimasti indietro, quelle riforme indispensabili che sono il sale della crescita economica. Un atout che potrà essere utilizzato dall’Italia nel confronto con la Commissione europea. Sempre che il governo giallo-verde riesca ad indicare un piano credibile di sviluppo, grazie al quale ridurre il rapporto debito – Pil, agendo sul denominatore.

LA NOTA AGGIUNTIVA

In tempi passati, questo era il principale compito di Via XX Settembre. Allora esistevano strutture dedicate: si pensi solo al ministero del bilancio e della programmazione economica. La famosa “Nota aggiuntiva”, che tanto fece discutere in Italia e rappresentò un tentativo “alto” di guidare lo sviluppo economico, fu presentata da Ugo La Malfa nel lontano 1961. Una tradizione poi dimenticata, di cui, forse, oggi si sente nuovamente il bisogno. Specie nei confronti dell’Europa, con la quale bisogna avere la forza di discutere e di convincere, partendo da un’elaborazione che non sia frutto di pura improvvisazione. Ma sappia portare avanti un ragionamento rigoroso con un respiro di carattere generale. Sarà questo il contenuto della lettera che Giuseppe Conte ha avocato a sé? Lo speriamo ardentemente. Solo così gli sforzi del ministro Giovanni Tria, nel dimostrare che l’Italia sta vivendo una realtà diversa da quella indicata dagli Uffici della Commissione europea, potrà avere un minimo di credibilità.

Che “assicurare la solidità dei conti pubblici” sia “essenziale per la tutela del risparmio e per l’accesso al credito, per sostenere l’economia reale e lo sviluppo per la valorizzazione dei nostri territori, per creare lavoro di qualità e una crescita esclusiva” come ha ribadito il Presidente della repubblica, Sergio Mattarella, nessuno può dubitarne. Ma, in una prospettiva di medio periodo, questa complessa equazione sta in piedi solo se sostenuta da un maggior tasso di sviluppo. Altrimenti non resta che rassegnarsi. Com’è avvenuto nel lungo inverno (dieci anni dal 2008) che è alle nostre spalle.


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