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Sudan (di nuovo) nel caos, ma nessuno ne parla

Le strade di Karthoum restano deserte per paura dei rastrellamenti. Il bilancio provvisorio dei morti non è noto con precisione ma sale di ora in ora. Erano cinquanta, poi dalle acque del Nilo ne hanno recuperati altrettanti. I corpi, nonostante fossero stati zavorrati per farli scomparire, sono riaffiorati mostrando l’orrore compiuto dalle “forze di sicurezza provvisorie”. Nell’era dei social media, dove la banale quotidianità di ciascuno può diventare virale, è ancora possibile mettere a tacere la banalità del male di quell’Africa di cui pochi si interessano davvero. Il blocco imposto su internet rende i sudanesi privi di voce. Poche sono le notizie che riescono a trapelare dall’oscuramento imposto dai militari.

Ad oggi, dunque, si contano più di 300 vittime in tutto il Paese, dove da febbraio è in vigore lo stato di emergenza. Delle salme non conosciamo i volti, non sappiamo i nomi. Non li vediamo nei riquadri delle prime pagine dei nostri giornali. Nessuno commemora le loro vite in un’Europa che ormai è assuefatta a vedere ogni cosa. Picchiati, fatti a pezzi con il machete, bruciati vivi: i morti del Sudan non fanno più notizia, tanto che quei cadaveri, ammonticchiati sui bordi delle strade con noncuranza, non sembrano essere appartenuti a persone reali. Sono lì, insignificanti, lontani, dimenticati.

Fonti qualificate osservano che la disperazione sta prendendo il sopravvento: ogni occasione è buona per manifestare la rabbia, scatenare una lite, soddisfare la voglia di una vendetta o di prevaricare sui più deboli. Uno scenario di pura anarchia in quelle terre che già avevano vissuto abbastanza atrocità. Insanguinate dai delitti dei famigerati janjaweed, gli squadroni che stupravano e uccidevano donne e bambini nel Darfur, dopo averne saccheggiato i poverissimi villaggi a danno delle etnie Fur, Maasalit e ZaghawaCon gli orrori di questi giorni rischiano, dunque, di riaprirsi antiche ferite.

COSA STA SUCCEDENDO IN SUDAN 

La rivoluzione popolare che sta agitando le piazze, dopo la destituzione del trentennale dittatore Al-Bashir, è logorata dalle massicce repressioni dell’esercito contro i manifestanti. Le violenze sono scoppiate da quando il Consiglio militare di transizione ha denunciato i precedenti accordi faticosamente raggiunti con le opposizioni, annunciando di voler gestire autonomamente il processo elettorale entro nove mesi.

Molti i critici di questa decisione. La realizzazione di un sistema democratico, si è obiettato, non può essere meccanicisticamente subordinata al responso delle urne: senza un tessuto politico sano e consolidato, le elezioni rischiano soltanto di legittimare al potere chi è in grado di farsi strada con la forza e con l’intimidazione. E’ per questo che le opposizioni avevano chiesto di formare un governo civile di transizione per un periodo di tre anni, una pax che avrebbe permesso l’affermazione della società civile, la strutturazione di nuovi partiti, nonché lo sviluppo delle necessarie regole del gioco.

Negli ultimi tre giorni, però, la situazione si è talmente aggravata che l’Alto commissariato ONU per i diritti umani ha chiesto il dispiegamento urgente di una missione finalizzata al monitoraggio del processo di transizione politica. Con un Consiglio di Sicurezza bloccato dai veti manca però ancora la risoluzione di condanna. La Cina, appoggiata dalla Russia, si è opposta, esprimendo la contrarietà ad ogni ingerenza straniera e così il Sudan rischia di diventare una nuova Siria. Gli interessi cinesi su Khartoum, del resto, sono forti: Pechino è il principale acquirente del petrolio sudanese (e anche di quello sud-sudanese). In cambio, vende manufatti di bassa qualità ma soprattutto armi.

Più netta la reazione dell’Unione Africana, che ha sospeso il paese dall’organizzazione finché non sia ristabilita una modalità di transizione che consenta di assolvere al dovere fondamentale di proteggere i civili.

UNO SGUARDO SUL PASSATO 

La storia del Sudan è quella di un paese che non ha mai conosciuto la democrazia. Sono ormai lontani i tempi d’oro dei regni medievali nubiani, dove le donne commerciavano sulle rive del Nilo e godevano di uno status sociale privilegiato. Persino la linea di successione reale era matriarcale. Eppure, diverse centinaia di anni dopo, lo scontro delle civiltà ha portato il Sudan a diventare egiziano, poi inglese. Nord e Sud erano governati dai britannici già come due entità separate. Con la decolonizzazione, la questione religiosa diventava l’unico modo per rafforzare la coesione di una nazionalità che non esisteva. Si decretava la shar’ia, reprimendo ogni dissenso ed epurando le posizioni di potere dagli insubordinati. Si rendeva illegale ogni movimento diverso dal partito unico. Nel 1991, si approvava, poi, il codice penale islamico, con pene come la pubblica impiccagione, la fustigazione, la lapidazione per adulterio, la crocifissione per furto, la pena capitale per apostasia, abituando la popolazione alla violenza per mano pubblica. I colpi di stato segnarono i passaggi di consegne fra i leader, scandendo la vita del paese. Persone come Gaffar Nimeiry, autore del primo golpe, avevano mosso i primi passi sul campo militare negli Stati Uniti, salvo poi convertirsi al radicalismo della jihad. Il più noto Omar al Bashir, incollato al potere dal 1989, ha fatto la storia del Sudan consentendo la proliferazione di cellule di terroristi islamici. Entrambi hanno in comune decenni di malgoverno, conflitti tribali e devastazioni, carestie ed emergenze sanitarie. La guerra nel Darfur e lo straziante genocidio compiuto dai janjaweed, milizie a cui il governo aveva attribuito licenza di uccidere, era andata avanti per il primo anno completamente inosservata. Solo in seguito gli ambienti dell’attivismo nei paesi dell’Occidente si mobilitarono per denunciare una delle più gravi crisi umanitarie mai avvenute nella storia recente.

Dopo 330mila morti e una diaspora di più di tre milioni di rifugiati, l’indipendenza del Sud Sudan e la fine della guerra civile aveva acceso un barlume di speranza. Ma oggi le strade sabbiose di Khartoum hanno imboccato la via di una crisi economica dalla quale non c’è requie, causata principalmente dalla perdita del 75% dei proventi derivanti dalla esportazione del petrolio, estratto nell’area delle Montagne di Nuba ora cedute al Sud. Nonostante nel 2017 siano state rimosse le sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti a causa del collegamento con il terrorismo e i foreign fighters (il Paese aveva attratto anche i consistenti «investimenti» in campi di addestramento da parte di Osama bin Laden), i sudanesi stanno vedendo le loro condizioni di vita deteriorarsi rapidamente.

Se la retorica dell’accoglienza ha ormai prodotto un intorpidimento delle coscienze, bastino i fatti del Sudan a farle risvegliare. Nulla è mai sufficientemente lontano di ciò che, alla fine, può giungere assai vicino.



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